Filosofo e performer teatrale, saggista e storyteller, ma soprattutto un grande divulgatore. Tutto questo e molto altro è Cesare Catà, balzato agli onori delle cronache nel 2015 quando redasse un decalogo per i compiti estivi dei suoi studenti del liceo di Fermo che lo fece diventare il John Keating dei giorni nostri e che rimane un punto di riferimento per ogni insegnante. Con Chiedilo a Shakespeare. Gli antidoti del Bardo al mare delle nostre pene (Ponte alle Grazie, pp. 348, € 16,80) ci accompagna per mano in un viaggio tra le opere di Shakespeare compiendo «un’esplorazione delle meraviglie e degli orrori che ci portiamo dentro come uomini». 10 capitoli in cui affronta altrettanti testi (Sogno di una notte di mezza estate, Macbeth, Molto rumore per nulla, Enrico V, Otello, La tempesta, Antonio e Cleopatra, Amleto, Romeo e Giulietta, Come vi piace) cercando risposte al nostro vivere, interrogando Shakespeare come un testo sacro a cui applicare l’arte della bibliomanzia che consiste, appunto, «nel ricercare le soluzioni ai nostri quesiti» in un percorso di auto-conoscenza estremamente originale e proficuo. Una lettura che non solo permette di approfondire i testi teatrali, ma che riesce a toccare questioni essenziali. Provare per credere. Lo abbiamo intervistato.
L’approccio apparentemente pop (riferimenti a serie tv, a blockbuster che sono nell’immaginario comune) va di pari passo con citazioni coltissime e ogni saggio è accompagnato da una esauriente bibliografia. Nel tuo libro alto e basso si mescolano costantemente…
È qualcosa che viene dagli spettacoli che faccio, nel senso che si tratta di raccontare una cosa bella e a volte complessa per noi contemporanei come il teatro di Shakespeare in una maniera vicina non tanto per un fatto culturale ma perché credo che il suo teatro sia in origine qualcosa di pop. Non a caso erano rappresentazioni a cui assistevano uomini e donne che per la maggior parte non sapevano leggere né scrivere, per cui era un teatro che arrivava subito, non è un teatro intellettuale, è immediato, di entertainment ma oltre a questo è ovviamente un’opera filosofica epocale, per cui questa doppiezza che ho cercato è propria di Will Shakespeare.
10 opere per 10 problemi della nostra vita quotidiana (dall’ansia all’abbandono, dal sentirsi fuori posto al non combinare nulla di buono…). Come hai scelto le opere?
Il progetto originario ne prevedeva molte di più, ma il libro avrebbe superato le mille pagine. Quindi insieme all’editor Cristina Palomba abbiamo fatto – come sempre dolorosamente quando si tratta di tagli per uno scrittore – delle scelte, mantenendo il fil rouge delle emozioni e dei sentimenti delle opere più celebri, anche cercando un equilibrio tra tragedie, commedie e drammi storici per dare un quadro generale. In questo modo il libro risulta più fruibile rispetto a una mole che sarebbe stata necessaria per parlare di 15-20 opere come si pensava all’inizio.
Nel prologo ci tieni a dire che Chiedilo a Shakespeare non è, e non vuole essere, un manuale di autoaiuto.
Non può esserlo per l’ispirazione filosofica che io leggo in Shakespeare. Non è un autore che può essere declinato per un miglioramento di efficacia della performance del soggetto, è un autore che sconvolge più che aggiustare, problematizza più che dare le soluzioni. Quindi, in questo senso, non può aiutarti se non in un modo che è più alto rispetto a quello che potrebbe essere un libro di autoaiuto con delle prescrizioni o dei consigli perché Shakespeare mostra proprio che i dolori che noi patiamo nella vita – dal più terribile fino al più banale – sono in un certo senso dentro il suo teatro e quindi scoprirli lì significa analizzarli e vederli anche dall’esterno per un percorso che ci porta a scoprire meglio chi siamo. Quindi non è in nessun modo un libro di autoaiuto perché Shakespeare non è un autore consolante quanto un autore tragico nel senso più vasto e splendido dell’accezione.
Com’è nato il libro?
La genesi è collegata agli spettacoli che faccio, in particolare due format che da tre o quattro anni porto in giro: Shakespeare Jukebox, in cui gli spettatori scelgono in maniera interattiva, dopo una mia piccola introduzione, tra 22 carte ispirate alla iconologia dei tarocchi che celano in realtà ventidue personaggi shakespeariani. Quattro volontari estraggoni da altrettanti mazzi quattro carte e si forma una storia collegata a quei quattro personaggi e alle domande che il pubblico pone. Questo dà modo ogni sera di fare uno spettacolo differente in base alle carte pescate e alla storia raccontata, poi c’è la lettura di un pezzo tratto dalla corrispettiva opera di Shakespeare e da lì parte tutta una storia. C’è poi un secondo format che da anni mi appassiona e che fino al primo lockdown abbiamo fatto per cinque anni consecutivi in spiaggia, sulla riva dell’Adriatico, a Porto San Giorgio, ed è Shakespeare on the Beach: ogni mercoledì, al tramonto, abbiamo messo in scena una ventina di opere in lezioni-spettacolo in cui si alternano letture drammatizzate, musiche originali di cantautori (soprattutto marchigiani) e uno storytelling in cui si racconta di Shakespeare e di come abbia a che fare con noi. Dagli appunti di questi incontri è nata la base del libro. Poi, parlando con Simone Regazzoni che è un amico e dagli incontri con l’editor, è venuta fuori la struttura di Chiedilo a Shakespeare.
Vai in scena solo nelle Marche?
Soprattutto nelle Marche perché qui abbiamo una terra molto viva sul piano culturale, ogni paesino ha il suo teatro, la sua piazza… diciamo che la maggior parte delle date nei tre, quattro anni scorsi le ho fatte qui per la grande risposta di pubblico e perché gli spettacoli che presento sono diversi: essendoci tanti titoli riesco a muovermi in uno spazio geografico limitato senza ripetermi, ma facendo sempre nuovi spettacoli. Capita di andare fuori, per esempio con Shakespeare Jukebox a gennaio del 2020 sono stato alla Triennale di Milano prima che tutti i teatri chiudessero. Ogni tanto esco, ma il grosso è nella mia terra…
Nel tuo stile letterario sei riuscito a mantenere l’ironia, la battuta…
Mi fa piacere che tu lo dica perché quando porto sulla scena Shakespeare c’è una felice sintonia con altri generi, il teatro di parola si mescola con la stand-up comedy, con ritmi che spesso sono estranei a un teatro molto serioso. All’inizio nel testo c’erano molte più battute, ma trasposte sulla pagina scritta funzionavano poco, un po’ perché legate al folklore marchigiano, un po’ perché sono battute da palco, però qualcuna l’abbiamo tenuta e sono contento si percepiscano. Anche questo, a mio avviso, non è estraneo allo spirito di Shakespeare perché persino l’opera più tragica tra quelle shakespeariane ha un sottofondo di ironia profonda che serviva sul piano drammaturgico a tenere il pubblico dentro al Globe, a chiamarlo e convincerlo a pagare un soldo. E sul piano letterario e filosofico riguarda la visione del mondo che Shakespeare aveva per cui se tutto è teatro, nulla è veramente serio, nel senso cattedratico dell’espressione.