Trentacinque anni sono passati dagli eventi raccontati in Watchmen, il classico a fumetti di Alan Moore e Dave Gibbons. Un anno è passato dal sequel, la serie TV firmata Damon Lindelof. La maschera di Rorschach torna a sconvolgere la politica americana quando la polizia sventa per un soffio un attentato al candidato repubblicano alla presidenza degli Stati Uniti, il governatore Turley, in lizza contro un Robert Redford favorito nei sondaggi. I due attentatori sono la supereroina The Kid, una ragazzina addestrata per diventare un soldato politico da un padre complottista segnato nel profondo dalla truffa che Adrian Veidt a escogitato per evitare l’olocausto nucleare in Watchmen, e il fumettista Will Myerson, che da decenni vive come un recluso coltivando idee sinistre non meno inquietanti del suo passato, che indossa la maschera del defunto supereroe divenuto icona culturale Rorschach. Il fallimento dell’attentato porterà alla morte dei due spalancando nel contempo un vaso di Pandora molto più profondo di quanto ci si potesse mai aspettare. Dopo Damon Lindelof, è il secondo autore che sembra aver capito come far funzionare una storia ambientata nell’universo narrativo di Watchmen. Il classico è lì, perfetto o quasi, un elefante nella stanza che a toccarlo si rischia solo di venir travolti. Questo infatti è il destino di tutte le serie della linea Before Watchmen, a tratti anche godibili ma, di fatto un buco nell’acqua in quanto totalmente superflue. E diciamolo subito, l’irrilevanza è il destino di qualsiasi opera che voglia prendere mosse dal lavoro di Moore, una graphic novel compiuta che non ha bisogno di ulteriori approfondimenti narrativi.
Tuttavia pecunia non olet, e per alzare i fatturati la tigre di una proprietà intellettuale di tale valore bisognerà pure cavalcarla. Quindi tanto vale mettersi il cuore in pace e prendere consapevolezza che, nell’universo di Watchmen, fuori dalla graphic novel esistono solo epifenomeni, storie che si svolgono intorno a quella supernova narrativa che sempre e comunque sposterà il baricentro verso di sé, e procedere quasi come se Watchmen non esistesse, senza lasciarsi intimidire. Come Lindelof con la sua serie TV, King fa esattamente questo con la sua maxiserie (Panini Comics) incentrata su Rorschach, una delle figure centrali del fumetto di Alan Moore che, proprio come nella realtà, s’imprime a fuoco nell’inconscio dei suoi personaggi determinandone l’agire nel corso della storia. Il risultato è una narrazione lunga, articolata e soprattutto molto solida, un thriller à la True Detective con la complessità crescente di un gioco di scatole cinesi. Rorschach è una lettura ricca e stratificata in cui il lettore trova tantissimo: dagli omaggi al Ditko seguace della filosofia di Ayn Rand al racconto dell’America profonda, quel way of life vissuto nell’attesa costante di una resa dei conti contro una minaccia nebulosa, mai del tutto identificata ma percepita come immanente a uno status quo fatto di territorio, isolazionismo passivo aggressivo e anarchismo conservatore che idealizza una forma di ordine naturale e pre politico come l’unica realtà vera e giusta da difendere.
La riflessione sul genere, il meta fumetto non vengono del tutto abbandonati, uno dei protagonisti è un fumettista e certo non a caso, ma siamo lontani dalla decostruzione febbrile e radicale di un Moore che cavalcava l’onda della British Invasion degli anni ’80, quasi un’estensione del punk nel mondo dei fumetti. Tom King è un autore concreto e figlio del suo tempo, il suo storytelling è attuale e, pur nel più profondo rispetto dell’opera originale, si confronta con un mostro sacro senza paura, evitando il classico tributo senza coraggio e costruito sul fan service sfoggiando piuttosto dei gran muscoli da narratore consumato che danno vita a un’opera di alto livello che, mutatis mutandis, potrebbe stare in piedi autonomamente, senza sfruttare Watchmen come una stampella quanto piuttosto come un ideale verso cui tendere.