Genio e paradossi: in Blu-Ray Anime Factory la serie completa di Mazinga Z

Anche considerata la polvere ormai sedimentata sui vari dibattiti tesi a storicizzarne l’importanza, a quasi cinquant’anni dalla trasmissione in Giappone, Mazinga Z resta un paradosso, ancor più per l’appassionato italiano. Difficile digerire infatti l’idea che la primogenitura del filone animato dei robot giganti sia da ascrivere a quella serie arrivata sulle nostre emittenti dopo i successivi e più maturi epigoni, restando peraltro incompleta e funestata da numerosi tagli per centrare gli incastri perversi dei palinsesti. Per fortuna, rivista oggi nella nuova edizione Blu-Ray Disc di Yamato Video (su distribuzione Koch Media nella linea Anime Factory), la serie colpisce proprio per quella semplicità altrove stigmatizzata e che permette di mettere invece perfettamente in fila le fonti da cui Go Nagai e la Toei Animation hanno attinto nel dare forma alla storia. Semplicità dunque, come quell’idea ripetutamente divulgata di un Nagai intrappolato nel traffico, che sogna un’auto in grado di trasformarsi in robot antropomorfo per divincolarsi dall’abbraccio delle altre vetture. L’autore la mette poi su carta per concedersi una distrazione dall’impegno coevo con il suo capolavoro Devilman, che si stava rivelando opera complessa e gravosa. E così nasce Mazinga Z, con il suo schema di base molto lineare, che attinge direttamente dai classici dell’avventura: da un lato uno scienziato folle che vuole conquistare il mondo, dall’altro un collega altrettanto geniale ma volto al Bene, che utilizza la sua competenza per costruire un robot eroe.

 

 

Non sembra un classico canovaccio da fantascienza anni Cinquanta, quando la corsa al primato spaziale ispirava opere come Tobor – Il re dei robot e la scena era monopolizzata da scienziati megalomani che nel chiuso dei loro sottoscala realizzavano invenzioni incredibili? Magari per battere la sete di giustizia di un eroe mascherato come El Santo? Il riferimento al wrestling non è peregrino: notoriamente Nagai ne è un grande appassionato e quindi non stupisce che l’iconografia eroica del suo Mazinga si risolva poi in combattimenti con prese e mosse che non sfigurerebbero sul ring. Un po’ come in quell’Uomo Tigre che aveva proiettato la Toei sulla ribalta dell’animazione seriale, convincendola che la strada da battere era quella della collaborazione con esponenti di pregio e nuovi talenti del mercato dei manga. Un orizzonte di cui lo stesso Nagai era ormai parte integrante. Così, ecco un Mazinga che per metà è un wrestler in costume, e per il resto un tipico e sferragliante colosso meccanico che – intuizione visiva semplicissima ma geniale – fa tremare l’inquadratura a ogni passo per il suo peso. L’intuizione epocale però è un’altra: è il concetto che Mazinga si piloti come una motocicletta, per usare le parole del suo padrone e protagonista Koji Kabuto, che alla sua primissima apparizione ritroviamo appunto su due ruote mentre schiva un camion con un balzo acrobatico. In un sol colpo lo scenario da fantascienza d’annata perde tutta la sua aura da anticaglia e si fa moderno, affonda le mani nei biker movie giovanilistici contemporanei e parla direttamente la lingua del pubblico adolescente.

 

 

È lì che capiamo una verità forte: Mazinga Z è una sintesi di spunti il cui genio è dato dalla somma più forte delle singole parti, dove Nagai fa ciò che gli è sempre riuscito meglio, giocare con il concetto di identità. Pilotando il gigante, Koji può essere un Dio o un Demonio e lo impara a sue spese quando, salito in sella per la prima volta, rischia accidentalmente di uccidere il fratellino Shiro. In un solo passaggio siamo passati dall’esaltazione per una super motocicletta all’omicidio primigenio: è uno di quei salti quantici a cui Nagai ci abituerà nel corso della narrazione, in cui Mazinga da mezzo “pesante” diventerà capace di muoversi nell’acqua e nel cielo. E forse, nella connessione che stabilisce con il pilota, non sarà più soltanto una macchina, ma pure lui un autentico personaggio. Altrettanto ricco il gioco sui nemici, che evocano uno scenario variegato: il malvagio scienziato tedesco Dottor Inferno è una sorta di scoria impazzita dei vecchi scenari nazisti, mescolati alla sete di conquista dei grandi imperi da evo antico (i robot sono residuati della civiltà micenea) e alla rivalità sempre presente fra Occidente e Oriente, una sorta di Fu Manchu alla rovescia. E i suoi mostri meccanici, in originale “kikaiju”, sono omofoni dei kaiju alla Godzilla: gli ideogrammi sono parzialmente diversi, ma non i loro ruggiti, ripresi pari pari dalle pellicole del sauro atomico (di cui pure Nagai è un dichiarato fan). Ancora un salto quantico insomma: si passa così dalla fantascienza con i robot ai combattimenti dei tokusatsu, dove non a caso un eroe mascherato affronta i mostri usando mosse di wrestling. Il cerchio è chiuso e la proposta è perfettamente coerente.

 

Go Nagai

 

A restare sempre fissa è la sfida morale di un protagonista che deve onorare la promessa fatta al nonno – che ha creato il robot salvo essere poi ucciso dal Dottor Inferno – e sopportare così il compito gravoso di una sfida che è una continua lotta contro il senso di responsabilità e l’impegno di diventare grandi. Mazinga Z lo fa con leggerezza, grazie alla regia esperta di Tomoharu Katsumata (riconfermato dopo Devilman), ai fondali pittorici marchio di fabbrica della Toei e alle musiche orchestrali di un Michaki Watanabe in grado di infondere vita e epica in quei disegni un po’ statici, mentre l’occhio segue con passione i design altrettanto indovinati e vitalissimi di robot e mezzi. Basti pensare all’architettura avveniristica dell’istituto/base degli eroi, con quelle torri longilinee e svettanti, gli agglomerati di componenti e la piscina da cui emerge lo stesso Mazinga. Ancora una volta uno scenario capace di evocare tanto il futuro, quanto i segni tangibili di un mondo vicino alla realtà più comune. Insomma, forse non è poi così semplice il disegno che muove questo scenario che alterna lotte fra giganti e scaramucce sui banchi di scuola, in cui la tecnologia sembra una possibilità a portata di mano come l’avveniristica energia foto-atomica che muove il robot, ma resta anche un monito sospeso ribadito dalla furia dei mostri meccanici. Un mondo duale, come i magnifici luogotenenti di Inferno, dal Barone Ashura metà uomo e metà donna, al Conte Blocken, vivo e contemporaneamente morto (più volte viene definito “un fantasma”), con quella testa che galleggia nell’aria staccata dal corpo. Bene dunque la possibilità di fruire di tutte e 92 le puntate raccolte nei quattro cofanetti e restaurate in una definizione altissima dai negativi originali. Una qualità inedita, che insieme all’edizione italiana degli episodi mai trasmessi dalla Rai e al ripristino dei tagli, mantiene il doppiaggio del 1980 con alcune voci irresistibili come Lino Troisi su Inferno e Claudio Sorrentino su Koji (ribattezzato arbitrariamente Rio). Una nota di merito va ad alcune trovate estemporanee ma assolutamente geniali dell’edizione italiana: come i cattivi che si detestano ma si danno del “lei”, che sembra un ennesimo gioco sulle identità tipicamente nagaiano. Si storce invece il naso di fronte al nuovo montaggio audio della sigla italiana effettuato da Yamato e ai sottotitoli che, per quanto fedeli, usano la più restrittiva traduzione di “bestie” per i mostri, indicandoli al femminile con un effetto decisamente esilarante. Un piccolo scotto da pagare alla possibilità di avere finalmente tutta l’epopea su supporto fisico dopo i vari tentativi andati a vuoto nel corso dei decenni.