Già dal tempo di Ngan! (2015), quel terreno incerto, opaco che era il vinile, con raggi gialli subliminali e fosforescenti in base di vetro opaco, gli Gnoomes avevano preso la via dell’impasto dei generi, della commistione, mai modulata da altri, negli ultimi anni, con tanta paradossale amalgama, come in Roadhouse in apertura dell’ep, che era cavalcata terraquea con apnee in spazi, tunnel scuri e ritorni a luci anche abbaglianti. Un anno prima c’era stato un altro ep, It’s moonbow-time, boy, molto meno interessante, all’insegna di un più definito shoegaze che però mostrava tutto un apprendistato da parte del gruppo russo, nei meandri, attraverso i muri eretti, distorti, nelle aperture di dolcezza della voce anche eccessiva, propri dello shoegaze degli anni Novanta. Ma è propriamente nei brani lunghi di Ngan!, che uno dei gruppi più importanti in circolazione prende corpo, ma nella scorporazione, disarticolazione, nella frantumazione di quei muri di chitarre distorte, tra le cui crepe ora passa un respiro d’ancestre, un vento psichedelico che porta non semplicemente a spazi (space) ma a vastità rock, poi asciugandosi in bave elettroniche arriva alla deep-house più ipnotica, fino alla techno di My Son.
E nel successivo Tschak!, primo LP degli Gnoomes (sempre da Rocket Recording, seguito da un disco di remix che vede tra gli altri la partecipazione degli italiani Julie’s Haircut e Lay Llama insieme ai Landing, a Josefin Orn + The liberation, a Lorette Meets The Obsolete, Ulrich Schnauss ecc.) questa intersezione è completa anche se in brani più brevi (proprio i Julie’s fanno il loro ennesimo capolavoro allungando ed elettrificando Severokamsk), partendo da una premessa quasi drone, un rantolo di macchina guasta che reclama il proprio ingranaggio, e aprendosi subito alla melodia di Maria Masha Piankova straordinaria tastierista,in un tratto psichedelico prima, poi techno, ma sopra una struttura shoegaze, almeno a voce. E così via, tra psyche-trame di chitarra, fondamenta in mog, canto intonato e casse dritte (anche serrate, nell’ultra-techno Tschark! che poi squilla, stride pure di byte stracciati) queste modalità si fanno viatico di eccezionali invenzioni sonore e partiture inafferrabili nel corso di tutto il disco. Che è quello che accade, forse con un po’ meno di intensità ma con la stessa sensazione di non aver bene afferrato il “motivo” del disco, alla fine dell’ascolto, anche nell’ultimo MU!, già dall’Utro iniziale: come un’epica in epoca post-industriale, con nenie d’anime, ombre ventilate da dietro la stoffa ruvida e gli sfilacciamenti di una notte senza scampo, salvo distendersi nella maggiore cantabilità, a tratti sognante, di Sword In The Stone in cui però resiste il mito della tastiera a stratificare l’epos; poi in mantra, come un loop lamentoso, filamentoso di voci in Irma a fare da contrappeso a Glasgow Coma State, scandito da un ritmo più rock e una vocalità quasi scanzonata, tale da includere anche il fischio labiale, con aperture eteree di rif minimali di chitarra quando inizia una sezione kraut. Che molleggiano, i rif, in Progulka, si sfanno di riverberi, di tinte in-déjà-vu, in-mog, mentre i tom hanno già trasformato il kraut in preparazione dionisiaca, e una chitarra rauca delinea brandelli di vaticinii. Sicché il sortilegio, il motivo stesso del sorgere del suono primevo, con l’nferenza dei suoi perchè, dei suoi fini ecc., s’avvera in Ursa Major a ricordare la deep-house di Roadhouse che allora è fondante, mentre un’eco di canto delinea un qualche abbraccio di dream-rock, un esporsi gioioso a uno scroscio di pioggia sintetica. Poi, dopo un bofonchiare di maestrale a mog, s’esaurisce, il gocciare, in Shine Waves Are Good For Your Health tra rif assottigliati che prendono profilo di ricamo, di puntiglio e scintillano nel lasso andante. Ma How Do You è shoegaze, spensierato, fino a che non parte come una bossanova astrale, che ha dentro ancora quella deep house, con tanto di giaculatorie e nebulose roteanti in due dimensioni, la quale si technizza, la bossanova, in Feel now mentre riprendono le voci come di presagio notturno, che alla fine ti lasciano senza niente in mente, un nulla come rizomato dall’itinerario dei generi, dagli stridori, le torsioni dei motivi e le improvvise conciliazioni con le ferite e i miasmi, il fiele secreto delle cose.