Personaggi che indugiano su una spiaggia, sedotti dagli scorci sul Pacifico e dai ritmi della risacca. Una sequenza di primi piani scava nei loro volti, fotografandone lo spettro di reazioni al cospetto del paesaggio di fronte a loro. I campi lunghi catturano i cromatismi del sole tra le nuvole, le onde e una colonna di fumo all’orizzonte. Ma non c’è nulla di rassicurante né idilliaco nella spiaggia sul Pacifico in cui Doug Aitken ambienta il suo corto Wilderness, concepito lo scorso aprile come videoinstallazione immersiva per la 303 Gallery di New York, dal 26 luglio disponibile su MUBI. La natura viene mostrata quasi en passant, senza dare il tempo allo spettatore di soffermarsi sulle immagini. Aitken si focalizza sulle modalità con cui i suoi personaggi contemplano il paesaggio, più che sul paesaggio stesso. È una natura sempre mediata dalla prospettiva dei personaggi che la osservano, restituita indirettamente allo spettatore mediante un’espressione facciale, un movimento degli occhi. Una mediazione che si estende anche alla tecnologia degli smartphone e delle macchine fotografiche. Diceva Carmel (Regina Hall) nella serie TV Nine Perfect Strangers che nulla «è reale finché non lo posti sui social», sintetizzando una delle grandi contraddizioni del nostro tempo come l’impossibilità di una contemplazione autentica e disinteressata.
Non trapelano stupore, meraviglia, sgomento, neppure un malinconico struggimento, dai volti dei personaggi di Wilderness. Immobili e assenti, sembrano alienati, automi che scrutano la natura senza provare niente. Ancora più enigmatiche sono le parole che ripetono come un mantra, da soli o all’unisono, modellando rime visive e sonore. Espressioni come «Did you see the sunrise?», «Always running», «The sun is cold», riecheggiano tra sonorità meccaniche e aliene, in una sorta di rituale sciamanico. Le parole sono in sincrono con i movimenti delle labbra di chi le pronuncia, eppure vengono manipolate elettronicamente, amplificando un senso di incomprensibilità e mistero. Anche il montaggio si fa via via più serrato e il paesaggio sonoro aspro e minaccioso. Squarci di nuvole, mani tese al cielo e altri dettagli si scompongono in riquadri, tessere di un mosaico ripetute all’infinito sullo schermo. Il sole è ormai tramontato e la tensione è a questo punto palpabile, con distorsioni sonore in crescendo e geometrie visive di aerei in volo e motori di auto che ruggiscono nell’oscurità. Ma non si raggiunge mai il climax, con il finale che interviene ex abrupto a dissolvere la tensione e il senso di minaccia imminente. Si legge nella descrizione della videoinstallazione per la mostra newyorchese che il corto è stato pensato per essere proiettato su una serie di schermi intorno allo spettatore e per ripartire senza soluzione di continuità dopo il finale. MUBI ne ripropone quindi una versione inevitabilmente monca, seppur dotata di grande fascino visivo e di un approccio non banale alla dicotomia naturale/artificiale, e alle narrazioni, spesso labili e illusorie, che costruiamo intorno a essa. È un conflitto che viene evocato da Aitken senza mai scadere in pose moraleggianti o nella ricerca di una soluzione, di una consolazione finale. Lontano da un gratuito compiacimento sensoriale, il suo è uno sguardo disincantato sulla natura, che attraverso accenni visivi e suggestioni sonore allude alle contraddizioni escapistiche dell’uomo: sempre proiettato verso una presunta autenticità al di fuori del caos urbano, è però incapace di viverla pienamente.
Dal 26 luglio su MUBI