Per dare un’idea dell’impatto dell’opera e della vita di Fela Kuti sulla cultura black basta ricordare che Jay Z e Will Smith hanno coprodotto, alcuni anni fa il musical Fela che è stato un grande successo a Broadway. Pur essendo scomparso nel 1997 (a soli 58 anni) l’opera di Kuti continua ad essere riproposta: nel 2023 è uscita un’edizione limitata di Gentleman molto ben accolta dalla critica. Nel 2014 Alex Gibney , in accordo con la famiglia Kuti, ha girato l’interessante documentario Finding Fela. Ora è arrivato Fela. Il mio dio vivente. Ne abbiamo parlato con il regista Daniele Vicari.
Daniele, che personaggio è stato Fela Kuti?
È una figura abbastanza imprendibile, difficile da inserire in una sola categoria: è stato un musicista di grandissimo talento, un attivista politico, un sacerdote, leader ideologico per l’intera Africa, un compositore che ha cambiato la storia della musica tra Africa e Occidente. In generale, uno da cui si può soltanto imparare e, specialmente per chi si occupa di musica, un personaggio imprescindibile.
Michele Avantario si avvicina a Kuti con una curiosità di tipo personale, artistico. Non sembra esserci alcuna motivazione politica nel suo atteggiamento. Fu davvero così?
Io credo di sì. Michele scopre Fela Kuti come personaggio nel 1984, grazie a Renato Nicolini, che porta l’inventore dell’afrobeat in scena all’Estate romana (anche se prima lo conosceva probabilmente attraverso i suoi dischi). E da lì inizia a fare avanti e indietro con la Nigeria. Si avvicina dunque all’Africa non per ideologia, quanto per amore di una musica e di uno stile di vita. Cosa che a me pare la bella conferma che meno ideologie si scomodano e più le culture si mescolano. In quegli anni c’era un fermento che oggi non ci sogniamo neanche lontanamente: ormai siamo abituati a una quiete mortifera e il dibattito è azzerato, tanto che si litiga moltissimo ma non ci si confronta, anche perché uno ascolta e legge soltanto quelli con cui è già d’accordo.
Ti sei fatto un’idea delle ragioni per le quali Avantario non riuscì a dare forma compiuta al suo progetto cinematografico?
I motivi sono vari, e in parte si intuiscono anche nel film. Ritengo che quello principale risieda nel fatto che Michele ambiva a realizzare un lavoro di finzione con protagonista lo stesso Fela Kuti, che al riguardo era però assai recalcitrante: era una star e come tale si mostrava attentissimo alla propria immagine, consapevole anche che certi aspetti della vita a Kalakuta, se mostrati apertamente, non lo avrebbero messo in buona luce (e infatti alcune delle riprese che ho trovato, spulciando gli archivi di mezzo mondo, non lo fanno). Mi sono comunque fatto l’idea che, a un certo punto, la spinta emotiva verso questo progetto sia stata superata dall’eccezionalità dell’esperienza umana che Michele stava vivendo, quella di unico occidentale bianco ammesso in una comunità nera, affascinante e complessa come Kalakuta; e che tutto il resto sia irrimediabilmente passato in secondo piano.
Il tuo sguardo si concentra su Michele, anche se c’è molto Fela Kuti…
Non avrei mai potuto fare un film direttamente su Fela Kuti, perché non ho le conoscenze necessarie. Ma l’interessante materiale girato da Avantario, permette di registrare il cambiamento di Michele medesimo, a livello culturale, personale e umano dentro una realtà in transizione. Una storia singolare e un’occasione davvero preziosa per me, a maggior ragione oggi che siamo ripiombati in un clima (neo)coloniale.
A proposito: nella seconda metà del secolo scorso, in Africa, emersero leader che lasciavano intravvedere orizzonti prosperi per il Continente Nero. Ora la situazione è stagnante, oltre che esplosiva…
Tendiamo a guardare a quel mondo come se fosse una marmellata di questioni, mentre è una realtà estremamente complessa, con tantissime variabili ostiche da inquadrare, e certamente non una semplice somma di nazioni. Fela Kuti stesso, prima ancora che un nigeriano, era un Yoruba, etnia a cui appartengono varie altre figure di spicco nella storia del Paese, come per esempio il drammaturgo Wole Soynka, Nobel per la Letteratura nel 1986, che di Kuti era cugino. Credo che sia tuttora inarrivabile la sintesi con cui, a fine anni ‘70, Fela inquadrò la condizione dell’Africa post coloniale: “Alla presenza di eserciti stranieri sul suolo africano, si è sostituita quella delle multinazionali, che è più subdola, nonché più devastante per la cultura, il territorio, la qualità di vita dei popoli africani”. Nelle sue canzoni questa considerazione di partenza è poi declinata con forza, chiarezza e senza sconti né con riguardo all’atteggiamente diversamente colonialista dell’Occidente né alla corruzione e alla pochezza di molte presunte élite continentali. Non è cambiato molto, se non il modo in cui il colonialismo si mostra, che è anche peggiore di prima. Ma, lo ripeto, noi non conosciamo questa storia, il nostro sguardo è perlopiù prevenuto e approssimativo.