L’accostamento che non ti aspetti è tra un brano degli Üstmamò del 1996 e un film di Michelangelo Antonioni datato 1966. Lo ha tracciato Mauro Ermanno “Giò” Giovanardi, ricreando (con la regia di Fabrizio Trigari) storia e stile del magnifico Blow Up nel videoclip che rilegge Baby Dull della band emiliana, secondo singolo di La mia generazione, il disco uscito a fine settembre con cui il musicista monzese ripercorre la fervida ribalta alternativa italiana degli anni ’90. Nel video, la parte del fotografo della Swinging London che fu di David Hemmings è affidata a Rachele Bastreghi dei Baustelle (che ha occhi simili, tra l’altro); mentre Giò si cimenta da cavalier servente e veste i panni dell’assistente che asseconda l’artista nella ricerca del clic perfetto. Quella inscenata da Giovanardi non è furba operazione a tavolino messa in campo per sfruttare una ricorrenza, quella dei cinquant’anni dalla vittoria della Palma d’Oro a Cannes del film italiano. L’idea nacque infatti in tempi non sospetti per contrasto al climax del video alla Tarantino che era abbinato al primo singolo, Aspettando il sole, dove prevalevano atmosfere torbide e claustrofobiche. Giovanardi stesso ci racconta: «Eravamo convinti che per Baby Dull ci volesse una confezione diversa, luminosa e glamour. È allora entrato in gioco l’immaginario cinematografico che ci ha rimandato in maniera quasi naturale a Blow Up».
Il musicista, in oltre venticinque anni di carriera, è passato dal punk-rock in inglese dei Carnival of Fools al geniale mix di elettronica e canzone d’autore dei La Crus, alle atmosfere morriconiane (con echi di Tenco e Nick Cave) della carriera solista; sempre con la cifra inconfondibile di una voce tridimensionale e limpidamente strutturata, che lo rende riconoscibile qualunque cosa canti. Figuriamoci che risultati poteva ottenere immergendosi, come è successo, «con tantissimo cuore e tantissima testa» dentro un universo musicale frequentato da protagonista insieme ad altri musicisti che, pur differenti per provenienza ed estrazione, costituirono la scena underground di fine millennio.
Giò, come hai scelto le 13 tracce del disco e gli ospiti?
Non potevo fare un’enciclopedia. Per cui, oltre a decidere che volevo pochissimi contributi esterni (Cristiano Godano, Manuel Agnelli, Samuel, Rachele Bastreghi, Emidio Clementi, ndr) onde evitare che fosse un circo, ho pensato di selezionare un brano per band (o artista) e canzoni che mi fossero vicine, scartando il dialetto, che avrebbe richiesto un lavoro eccessivo sulla espressione della mia voce. Questo fa sì che ci siano rinunce dolorose (lo sono senza dubbio Sanacore degli Almamegretta o Ël mat dei Mau Mau, che pure amo molto); ma volevo un disco che restituisse la compattezza di una scena in cui c’erano confronto, scambio continuo, idee in abbondanza e in alcuni casi anche amicizia.
Con che spirito hai affrontato la sfida?
Con la consapevolezza di poter far diventare miei i pezzi altrui. È un disco di cover e io credo che di una canzone di altri, o ne fai una versione ispirata o la lasci andare; ed è un lavoro sulla generazione a cui io stesso appartengo, che ha dato vita a una scena feconda e stimolante, forse archiviata troppo in fretta. Ho voluto scansare la retorica del “come eravamo bravi”, riproponendo piccole gemme e cercando per ciascuna di queste un abito che la vestisse al meglio.
Dove sta l’importanza di quella stagione rivoluzionaria?
Capimmo, dopo le rincorse alla lingua inglese, di cui tutti ci eravamo infatuati in principio, che si poteva fare rock e sperimentare pure in italiano, arrivando in maniera più diretta al pubblico. Non fu facile, all’inizio, ma poi riuscimmo a passare da cantine e sottoscala a club pieni di gente.
Cosa resta di tutto ciò?
Testi e musiche che non sono invecchiati: canzoni che un tempo erano confinate nei circuiti alternativi hanno intersecato i sentimenti di più generazioni e ora sono dei classici. Possiamo dirlo senza problemi. Non è conquista da poco.