Micah P. Hinson – L’angelo caduto di Abilene, tra polvere e fuoco

“Ho sempre voluto scappare da Abilene, perché è una città che porta alla disperazione oppure a cercare un dio, quale che sia: o te ne vai o trovi rifugio nella religione, nella droga, magari fai figli a sedici anni. Io vengo da esperienze desolanti: mi ha salvato la musica”.Sono parole di Micah P. Hinson, songwriter e polistrumentista 36enne nato a Memphis e cresciuto in Texas. Ha il volto bambino di un angelo caduto, look post grunge con dettagli eccentrici, un singolare timbro vocale e una vena compositiva empaticamente stralunata, che si veste di sonorità lo-fi situate tra folk, blues e punk. Si è fatto conoscere nel 2006 con l’album Micah P. Hinson and the Opera Circuit, diventato nel tempo oggetto di culto, che ripropone dal vivo per celebrare una carriera che sembrava spezzata nel 2011 da un pauroso incidente d’auto avvenuto in Spagna, in cui ha perso parzialmente l’uso del braccio sinistro. In questi giorni è in tour in Italia.

 

Il live (Latteria Artigianale Molloy, Brescia)

Pare una notte texana di tenerezza fumosa e sogni fuggenti, il lunedì della Molloy. Protagonista il singolare cantautore di Abilene, Micah P. Hinson. La sua voce, che raggiunge profondità abissali e da esse ritorna sempre, pare tanto più incredibile se associata al volto bambino che dice assai meno dei suoi anni, al suo corpo esile: è carta vetrata e velluto, porta con sè la sofferenza atavica di un Johnny Cash e ha il timbro ipnotico di un Leonard Cohen, pur senza la maestosa solennità delle due leggende. L’andamento del live – basato più che altro su un disco di culto recentemente ristampato da un’etichetta italiana – inclina decisamente a una dimensione intima, sebbene si riveli anche potentemente lirico. È country-rock di notevole modernità, rapsodico, che segue un filo conduttore tutto suo, legato a un ritmo interiore. Si manifesta ora sotto forma di desertica ballata da sconfinate praterie dell’anima, come in Seems Almost Impossible, che apre il concerto; assume coloriture romantiche sulle ali del violino o della stravagante chitarra pizzicata con maestria da “Asso” Stefana (giunto a sorpresa sul palco) come in Jackeyed; è distorto valzer senza tempo (It’s Been So Long), danza zingaresca e polverosa (Diggin’ A Grave), conquista afflato cameristico in Little Boys Dream, si trasforma in cavalcata dal respiro epico in You Are Only Lovely, per chiudere la prima parte con l’abito di una nenia dal profumo inebriante (Don’t Leave Me Now).Fuoco dentro e calma ieratica fuori, Hinson somiglia più di quanto non vorrebbe alla sua terra; e la musica riflette le sue esperienze personali, tra amore e dolore, struggimento e alterne fortune. L’eterna sigaretta incollata alle labbra, laterale nella disposizione sul palco, ma rischiarato da eccentrico carisma, Hinson ha conquistato nota dopo nota un pubblico dal palato fine. Terminato il capolavoro, spazio per esplosioni chitarristiche e accenni di furore punk: altri ritmi, attinti perlopiù dai lavori recenti (ma c’era pure la meravigliosa Close Your Eyes, del 2004) che, anche se disperdono un poco l’aura magnetica creatasi in principio, non deludono. Di nuovo incantevole, comunque, il pacificato finale, in bilico tra la dolcezza degli archi e la malinconia, dove regnano gli interrogativi esistenziali di How Are You, Just A Dream. Lampi nel buio.

 

 

Mr. Hinson, si sospetta che lei odi Abilene, sebbene abbia ispirato la sua musica…

Non la odio, la cosa proprio non esiste: ci sono cresciuto, è parte di me. Ma era un posto molto strano e pericoloso per viverci: solo una piccola percentuale di ragazzi rimaneva indenne dalla deriva; la maggioranza aveva problemi con la legge o si lasciava andare e moriva. È una città diversa da ogni altra che io abbia visitato o intercettato, e noi del posto una razza particolare.

 

Dopo l’incidente, ha dovuto reimparare a suonare la chitarra. La rieducazione è compiuta?

La riabilitazione è terminata, ma la funzionalità non è più la stessa. Con il braccio sinistro sono in grado solo fino a un certo punto di fare le cose di prima.

 

Quali artisti hanno lasciato in lei il loro segno?

Parecchi. In ordine sparso: John Denver, Charles Bukowski, Robert Smith, Nivek Ogre (attore e musicista canadese, ndr), Kevin Shields (chitarrista irlandese dei My Bloody Valentine, ndr), Jack Kerouac, Vanden Todd Lewis (rocker texano, ndr), Gustav Klimt, Trent Reznor, Brian Wilson.

 

Ha dichiarato: “il valore della musica che faccio viene dalle persone che la ascoltano”. Lo pensa davvero?

Penso che sia l’unico modo appropriato per inquadrare la situazione, sempre che parliamo del tema in termini di esistenze umane, concrete. Se invece ci riferiamo al livello spirituale, beh…allora la questione è differente.

 

Che legame ha con l’Italia?

Dannatamente buono. È un posto benedetto: amo la gente e questa mi apprezza o, perlomeno, viene ai miei concerti e sembra che si diverta. Sono un uomo migliore dopo aver conosciuto persone che vivono in Italia e che mi sono care.

 

Qual è il miglior posto in cui ha suonato?

Il mio preferito è la Union Chapel di Londra, una bella chiesa antica con un’ottima acustica. Ma, soprattutto, è lì che ho chiesto a mia moglie Ashley Bryn di sposarmi, lì che ella ha accettato il mio amore. È per forza un posto speciale, non c’è dubbio.

 

Perché riproporre per intero un disco che ha dieci anni?

Non vuol essere una celebrazione. La Bronson, una brillante etichetta di Ravenna, ha però ristampato nel suo decimo anniversario il mio terzo disco, rimasterizzato e remixato, con una nuova copertina e alcuni pezzi rivisitati in chiave orchestrale. Per questo motivo, con i miei quattro musicisti, suono il lavoro nella sua interezza, ma non dimentico altri pezzi del mio repertorio.