Pepsy Romanoff: non sono fan di Vasco, per questo lo filmo bene…

«Non nasco fan di Vasco Rossi e credo di non potermi definire tale nemmeno oggi, nonostante che lavori con lui da anni e la vicinanza me lo abbia fatto apprezzare moltissimo come persona e come artista. Forse per questo, quando lo filmo, riesco a mantenermi oggettivo». Sono parole di Giuseppe “Peppe” Romano (altresì noto come Pepsy Romanoff), il regista di fiducia del Blasco, che ha curato la direzione artistica e la diretta televisiva dell’epocale concerto dei record di Modena 2017, con cui il rocker di Zocca ha celebrato quarant’anni di carriera. Ospitato nel parco “Enzo Ferrari” della cittadina emiliana, il 781º live nella carriera del cantante, è quello con il più alto numero di spettatori paganti di sempre, al mondo: 220.173, a cui vanno aggiunti 5000 tagliandi gratuiti (il record precedente era detenuto dagli A-ha: 198mila paganti nel 1991, al Maracanà di Rio De Janeiro). Rispetto alle riprese della diretta (che ebbe anche una bolsa cornice in studio, affidata a Paolo Bonolis), Peppe Romano ha effettuato un meticoloso lavoro di rimasterizzazione del live, con un nuovo montaggio che introduce panoramiche, elementi del backstage e momenti intimi del cantante: il risultato è Vasco Modena Park 2017, un film di oltre due ore e mezza, dal ritmo serrato, che approda nei cinema il 1º dicembre, anticipando il consueto profluvio di cd, vinili e dvd delle più svariate confezioni, adatte a ogni sorta di portafogli nel periodo natalizio.

 

Peppe, che evento è stato?

Folle e psichedelico: un’impresa che pareva impossibile e che invece abbiamo portato a termine. Credo che la definizione adottata da Michele Monina (scrittore che ha firmato un libro sul concerto, a quattro mani con Vasco in persona, ndr), ovvero “tempesta perfetta”, sia calzante.

 

La sua era una prospettiva privilegiata…

La mia non è una prospettiva classica: non amo stare dentro una cabina a dirigere, cerco di utilizzare la macchina da presa come uno strumento musicale che si integri con quelli della band. Alla vigilia dell’evento, con Vasco abbiamo deciso che sarei stato al suo fianco, per offrire uno sguardo il più possibile “da dentro”. Ma io e la mia squadra siamo stati tutti registi con pari dignità: 26 telecamere, 26 regie, 26 punti di vista differenti, che hanno contribuito insieme al gran risultato finale.

 

A un certo punto della diretta televisiva, Vasco le ha ceduto il palco…

Succede per un paio di minuti, quando dà le spalle al pubblico e guarda direttamente in camera. Sta cantando I Soliti  e si rivolge a chi è a casa e lo guarda in TV: è il suo modo per creare un filo diretto con chi non era a Modena. Volendo, possiamo quasi considerarlo un lungo selfie in diretta televisiva.

Com’è arrivato a collaborare con Vasco?

Ci incontrammo a Sky Arte, con cui ho realizzato parecchi programmi e che mi aveva scritturato per dirigere la serie Ogni volta Vasco: siamo solo noi. È scattata l’alchimia, ma non pensavo che mi avrebbe richiamato, perché io ho un background più da musica black e urban street (il 40enne Romano, uno dei registi di videoclip più ricercati d’Italia, ha cominciato la sua carriera con i N.E.R.D, e negli anni ha lavorato, tra gli altri, con Casino Royale, Club Dogo, Gué Pequeno, Pino Daniele, Battiato, De Gregori, Samuele Bersani, Tiziano Ferro – ndr). E invece…

 

Lei non era esattamente un appassionato dellla musica del Komandante…

La ascoltava mio padre, e quando sentivo cose tipo “Colpa d’Alfredo” o “Fegato spappolato” non riuscivo a sentirle davvero mie. Poi ho conosciuto la persona che c’e dietro a quelle canzoni e ho capito il significato di certe parole; soprattutto ho compreso perché la gente non può fare a meno di seguirlo: ha un carisma incredibile, è un cantante, ma allo stesso tempo è un sociologo e uno psicologo.

 

In Tutto in una notte (2016), che documenta il concerto allo stadio San Paolo, scelse di contrappuntare il live con l’immersione della ballerina Valentina Moar in una Napoli notturna e deserta. Stavolta cosa si è inventato?

Girando un film a Napoli, avevo a disposizione una location inimitabile, nel bene e nel male: ho cercato di sfruttarla al meglio. Modena non è certo la stessa cosa… Comunque qui avevo la necessità di mettere a fuoco altro, rispetto al luogo: la celebrazione di 40 anni di carriera. Nel film il concerto è fagocitante, ma ho provato a mostrare quello che le canzoni di Vasco Rossi hanno rappresentato e rappresentano. La colonna sonora ce l’avevo, naturalmente, ed era un repertorio straordinario che va dal cantautorato al “contemporary metal”. Circa i contenuti, ho cercato di raccontare la rockstar e l’uomo: da un lato ho recuperato immagini iconiche del suo percorso, corredandole con alcune girate ad hoc e improntate a emozione e semplicità; dall’altro, ho cercato di andare all’essenziale, quindi Vasco che parla, che si rivela in momenti intimi di una vita piena di passione e di musica, che spiega il suo rapporto con la gente.

 

Cosa c’è di Vasco Rossi che ancora non sia stato raccontato?

A me piacerebbe approfondire la dimensione dell’uomo, quella che precede la performance. Di materiale ce n’è, perché lui è un personaggio vero, che ha dietro una storia.

 

Tra gli artisti italiani, quali sono quelli nel cui mondo le piacerebbe entrare con la sua macchina da presa?

Avrei amato farlo con Lucio Dalla, che purtroppo non c’è più. E Paolo Conte è un sogno nel cassetto. Intanto torno a immergermi nel pianeta Casino Royale, con cui mi sono trovato benissimo in passato.

 

Ritiene che ci sia, tra i musicisti italiani delle generazioni successive, un altro Vasco?

Non ne vedo. L’unico che ci si avvicina – per carisma e per la capacità di arrivare a molti intercettandone il gusto, senza rinunciare a nulla della propria personalità – è Lorenzo Jovanotti. Ma per arrivare dove è arrivato Rossi, di strada ne deve fare ancora parecchia. E forse non sarà nemmeno possibile, perché l’Italia di oggi è diversa da quella in cui si è consolidato il fenomeno Vasco.

 

Lavorerà ancora con Vasco Rossi in futuro?

Ho appena avuto il rinnovo del contratto per tutto il 2018. Ma prima o poi ci sta anche il congedo, è nell’ordine delle cose. Non si può continuare per sempre con lo stesso sarto né con lo stesso abito.