Tra musica d’autore e pop, tra indie e mainstream. Il pop chiede con sempre maggiore frequenza testi e materiale sonoro agli artisti del circuito indipendente; di conseguenza si fa sempre più sottile la linea che divide gli ambiti. Ambiti non per caso tutti occupati senza patemi, anzi con grande leggerezza, da Zibba, al secolo Sergio Vallarino, 39enne songwriter ligure che è pure autore per altri artisti e produttore. Il nome d’arte definisce per estensione un progetto nato nel 1998 come Zibba & Almalibre, che coinvolge fin dal principio il batterista Andrea Balestrieri e, dal 2012, il saxofonista/tastierista Stefano Riggi; e che dal vivo è innervato dal violino di Dario Ciffo (per una decina d’anni negli Afterhours) e dal basso di Simone Rubinato. Nel 2018 Zibba ha pubblicato Le cose, un album bello e articolato, arricchito da molte partecipazioni (da Alex Britti a Erica Mou, da Marco Masini a Diego Esposito, da Mace a David Blank) e arrivato dopo una lunga gestazione, che accarezza il pop con influenze black, trasmettendo soprattutto l’impressione di un percorso di qualità testuale e sonoro che se ne frega di suoni e contenuti à la page, per seguire la propria ispirazione. Abbiamo chiacchierato con Zibba in occasione del live alla Latteria Molloy di Brescia.
Le cose, ottavo album della sua discografia, sembra quasi un bilancio…
È la sintesi di due anni di riflessione, umana ed artistica. È un disco più consapevole di quelli precedenti, per il quale ho voluto farmi consigliare (e contenere) da un collega come Simone Sproccati, che ha curato la produzione insieme a me.
Negli anni ha distribuito pezzi a parecchi interpreti. Di qualcuno conserva un ricordo speciale?
Sono stato particolarmente affascinato da Jovanotti, che interagiva con me da New York; di quelli visti da vicino, direi Marco Masini, che ha un bagaglio sorprendente, molto più ricco di quanto non si creda. Ma il confronto con l’artista è sempre un’emozione, una cosa di grande fascino.
Cambia qualcosa quando scrive per sè; o l’attitudine rimane la stessa?
Quando scrivo a mio beneficio, lascio da parte professionalità e malizia. È piuttosto uno sfogo di cavoli miei, un promemoria di cose (belle o brutte che siano) che regalo a me stesso.
Ha vinto un Tenco nel 2012, mentre due anni più tardi ha spopolato nella versione nazionalpopolare dell’Ariston sanremese, conquistando i premi di Critica e Sala Stampa con il brano Senza di te; come autore ha trionfato a X Factor, supportando Michele Bravi. È artista di indubbia versatilità: ma si sente più indie o più mainstream?
Per fortuna il mondo musicale di oggi fa cadere le barriere di genere e di status e non occorre posizionarsi. Omai è lo stesso pop che chiede all’indie di contaminarlo…Io non sento la distanza da una sponda all’altra: ciò che conta è la qualità delle canzoni.
C’è qualcosa che la lega a Brescia?
È una città che mi piace, ed è la terra di Omar Pedrini e Francesco Renga, cui sono affezionato: i
miei anni ’90 sono colorati di Timoria. Poi la vita mi ha regalato la fortuna di frequentarli
professionalmente. Omar ha fatto un ottimo rientro: Come se non ci fosse un domani è un grande
album.
Qual è, a suo parere, lo stato della musica italiana?
Mi sembra che viva un ottimo momento. Ritengo che i ventenni e i trentenni di oggi che fanno musica siano più consapevoli rispetto al passato. Anche tra i più giovani c’è un forte ritorno alla musica dal vivo, e il ricorso all’auto-produzione ha favorito il diffondersi di buona musica.
Se saltano le barriere dei generi, è più facile pensare anche al rap come musica d’autore?
Quando uno come Ghali canta “Qua non ti ascoltan quando hai sete, ti stanno addosso quando bevi”, lancia un messaggio al suo pubblico esattamente come Fabrizio De Andrè lo faceva con quelli della sua generazione. Forse per una questione di età certi temi non mi interessano, ma ci sono rap (penso a Chic di Izi) che descrivono il mondo con efficacia e poesia da cantautore. E allora gente come appunto Izi, Ghali, Willie Peyote, Frah Quintale e altri possono fare bene alla musica italiana.