“Brexit” è stata forse la parola più sentita negli ultimi mesi, ancor più di hashtag, selfie o like. L’uragano mediatico che ha scatenato in Gran Bretagna e nel resto del mondo è stato enorme, tanto da risvegliare anche gli animi più pigri e sordi di fronte a discorsi di politica. “Brexit” ha significato polemica e follia per molti, cosa buona e giusta per altri, discussione e partecipazione per quasi tutti. Le voci sull’argomento sono state e sono tuttora tante, ma poche sembrano davvero in grado di fornire una spiegazione al perché il 51.9% dei votanti si è pronunciato a favore del Leave. In questo caso, meglio lasciar parlare coloro che la politica la respirano a pieni polmoni.
Victoria Bateman è una professoressa di economia dell’università di Cambridge e ha approcciato la questione da un’angolazione che purtroppo troppo spesso viene lasciata da parte, quella storica: se perdoniamo i soliti (ma, che ci piacciano o no, ultra validi) cliché dell’historia magistra vita e del passato come unica vera via d’accesso al presente, ci rendiamo effettivamente conto di quanto lo sviluppo di un Paese sia condizionato dai suoi eventi storici salienti nel corso del tempo. Così l’economista inglese, per spiegare la Brexit, tira indietro l’orologio di circa duecento anni, e ripercorre la cavalcata trionfale della Gran Bretagna nell’era della Rivoluzione Industriale. Prima di questo evento epocale, spiega Bateman, il Paese era un luogo isolato, ma con il diciannovesimo secolo il rapido progresso dell’industria e della finanza ha portato la GB sotto i riflettori del mondo; una volta affermatasi come perno, essa ha a sua volta infuso energia cinetica agli altri Stati, facendoli muovere e sviluppare, e attraverso porti e ferrovie ha reso il mondo più piccolo. Con la sua outward orientation (apertura all’esterno), la Gran Bretagna ha aperto le porte alla prima fase della globalizzazione, e ciò che colpisce di più è che il merito non va attribuito alle elites, ma alle classi lavoratrici ed emergenti, quelle dei nuovi aspiranti imprenditori. Da allora la Gran Bretagna ha continuato a crescere, plasmando il Paese cosmopolita, generalmente elastico e tollerante che conosciamo oggi. Ma spesso il progresso economico porta con sé un fattore essenziale, a volte (s)travolgente, che non tutti avevano tenuto in conto: e questo fattore si chiama cambiamento. Ecco dunque che in questo punto si riannodano le fila della vicenda: i pro Brexit non hanno accettato di assorbire trasformazioni che li hanno lasciati disorientati, intontiti, come se la situazione stesse sfuggendo loro di mano. Dopo un secolo di industrializzazione, la Gran Bretagna ha dovuto affrontare un periodo di de-industrializzazione, con annessa una divisione tra nord e sud che ha raggiunto l’apice negli ultimi decenni del secolo scorso. Così, molti cittadini al di fuori di Londra e delle elites si sono sentiti in qualche modo esclusi, dimenticati, pur avendo agito loro stessi da nerbo e motore per la crescita industriale del Paese.
Ma sarebbe troppo comodo, sostiene Eric Kaufmann, docente di politica all’università di BirkBeck, identificare i sostenitori del Leave esclusivamente con i “left behind”, i “tagliati fuori”. Il gruppo degli scontenti è molto più sfaccettato, e include almeno altre due categorie. Primi fra tutti ci sono i conservatori timorosi, che si riallacciano per certi versi al discorso di prima. Anche costoro hanno paura di un cambiamento, quello sociale: fenomeno caratterizzante degli ultimi cinquant’anni, esso ha dato ottime speranze a molti ed altrettante preoccupazioni ad altri, gli accecati da un passato idealizzato e a tinte rosee con cui il presente non potrà mai competere. Tra di loro si annoverano quelli che considerano il femminismo, Internet e il Green Movement una minaccia alla conservazione della famiglia: chi protesta contro questi triggers del cambiamento rappresenta una percentuale consistente all’interno del variegato 51.9%. E infine ci sono i sostenitori di Boris Johnson, gli economisti, che hanno visto lo sguinzagliarsi dall’Europa come un’opportunità per creare una Gran Bretagna più internazionalista dopo un lungo periodo (a detta loro) di eccessivo controllo e scarsa libertà imposto dall’Unione. Che sia stato per lo sgretolarsi delle industrie, per il repentino e inaspettato cambiamento sociale o per una crescente consapevolezza della propria forza, gli inglesi hanno sentito il terreno europeo tremare sotto i loro piedi, congiuntamente alla loro fiducia e controllo di sé, e hanno votato Leave sperando di risanare le crepe. Ciò che in tempi brevi risulterà traumatico, tuttavia, è l’inconsapevolezza che dietro ad una motivazione apparentemente unica e concorde, lo scontento popolare, si celano in realtà delle preoccupazioni e delle speranze estremamente differenti e contrastanti, che rispecchiano le più diverse e frammentate classi sociali pro Leave: lungi dal portare unità nazionale, quindi, la Brexit è destinata a produrre un oceano di votanti delusi che hanno definitivamente smantellato la democrazia. Visione troppo catastrofista? No a dare retta alla stessa Victoria Bateman:”voters who feel that their democratic will was not listened to and that they were betrayed, ultimately undermining democracy in Britain”. Un tempo la Gran Bretagna vestiva l’Europa, fabbricando vestiti nelle sue industrie ed esportandoli; adesso li rivuole indietro, e ce li ha strappati; ma così facendo è rimasta nuda lei stessa: la sua economia, la sua società e la sua democrazia sono esposte a gelide conseguenze.