Alien: Romulus di Fede Álvarez e la derivatività che (con)vince

Tecnicamente va inquadrato come il seguito di Alien, sebbene a lungo conservi l’apparenza di uno spin-off della saga fantascientifica avviata nel 1979 a partire da un’idea di Dan O’Bannon e Ronald Shusett: Alien Romulus di Fede Álvarez ha in effetti una natura ibrida. Il regista uruguiano si intrufola nell’intervallo temporale che separa le storie raccontate rispettivamente da Ridley Scott (che ambienta la sua nel 2122) e Aliens – Scontro finale di James Cameron (che si svolge dall’anno 2179), senza tuttavia recuperarne l’eroina comune, la tenente Ellen Ripley interpretata da Sigourney Weaver (la quale, tra i due episodi, si era fatta cinquantasette anni di “ipersonno”), né in versione originale né in quella replicante che avrebbe assunto nel prosieguo della serie. La vicenda ci porta invece nell’anno 2142, tra le atmosfere cupe, ma cinematograficamente formidabili, della colonia mineraria Jackson’s Star, manifestamente ispirata alla Los Angeles notturna e sovraffollata di Blade Runner, essa pure targata Scott, ça va sans dire. E se in questa occasione il cineasta britannico, padre nobile del franchise, si limita al ruolo di produttore (cosa buona e giusta, considerata la vena altalenante degli ultimi anni), c’è da dire che l’universo iperderivativo (ma non per questo meno affascinante) disegnato da Álvarez è costantemente permeato di richiami ridleyscottiani, attinti anche da film estranei alla saga, sia nella prima parte a cielo aperto come nella seconda, “rinchiusa” nello spazio concentrazionario (ma non asfittico) di un’astronave. D’altronde, con la sola eccezione di Man on the Dark (2016), la finora esigua filmografia di Álvarez, dipanatasi con innegabile qualità tra horror e thriller, è stata manifestamente di seconda mano (due remake su quattro prove).

 

 

Tra le annerite e spietate strade di Jackson’ Star, la giovane Rain Carradine (nel cui nome, messo in relazione con l’ambiente malsano, si annida un altro omaggio al patriarca, che nel 1989 firmò Black Rain) lavora in stato di semi-schiavitù, per guadagnarsi un futuro più salubre, o almeno questo è quanto le fanno credere i capi della famigerata Weyland-Yutani Corporation, che sarebbero poi i padroni di buona parte del mondo conosciuto. En passant, la ragazza (l’attrice Cailee Spaeny, in panni più congeniali rispetto agli abitini dai colori pastello di Priscilla Presley, indossati per Sofia Coppola) si prende cura del fratello Andy (David Jonsonn, di misurata bravura), il quale ha un’apparenza rallentata, ma in realtà è un umanoide dai circuiti malfunzionanti, riparato alla bell’e meglio dal defunto padre di Rain, che se ne sente responsabile. Ed è proprio alle risorse connesse alla natura artificiale di Andy che mira un manipolo di hacker in cerca di orizzonti migliori, capitanati dall’ex fidanzato di Rain, che hanno avvistato il relitto di una nave alla deriva nello spazio e intendono saccheggiarla, per ricavarne il carburante necessario a raggiungere un pianeta piu luminoso, comunque lontano dal controllo della corporazione. Dopo un’iniziale titubanza, Rain si fa convincere, anche se non le è chiaro che ciò comporterà il sacrificio di Andy. Quando il gruppo si ritrova dentro l’astronave, nella sezione Remus (preludio al successivo passaggio alla Romulus…ma c’è pure la Lupa, a completare i miti fondativi di Roma), tutti i propositi elaborati in precedenza devono fare i conti con una situazione inaspettata e terribile, nella quale a condurre il gioco sono gli xenomorfi – le implacabili creature di un altro mondo che da quasi mezzo secolo abitano il nostro immaginario – e gli altrettanto letali, sebbene meno appariscenti, facehugger.

 

 

È in questo scenario raggelante, reagendo con straordinaria forza d’animo, che Rain comincia ad assumere caratteristiche titaniche alla Ripley, rivivendo in alcuni frangenti le sue stesse esperienze a stretto contatto con mostri che sembrano imbattibili. Ma è poi la metamorfosi di Andy, sotto forma di upgrade cognitivo (che avviene in maniera assolutamente plausibile), a determinare gli sviluppi forse più apprezzabili e innovativi della vicenda, inserendovi al contempo elementi di imprevedibilità. Álvarez dimostra di aver studiato con accuratezza la materia, ora riproducendo pari pari interi segmenti narrativi degli Alien passati, ora attualizzando situazioni e dialoghi con tocco personale, anche se mai emancipandosi veramente dagli epigoni (ovviamente sempre Scott, più di Cameron). Optando per un’equilibrata combinazione di ritmo, tensione, azione e centellinando invece la paura (dunque non spingendo troppo sul versante horror, né tantomeno reiterando i faccia a faccia tra la nuova eroina e il bavoso nemico ancestrale), trattenendo pure l’impulso alla deriva epica, che è un rischio sempre dietro l’angolo quando infuriano le battaglie galattiche. Il risultato è un film che non ha nulla di inedito, non eccelle in nessun fondamentale cinematografico, ma che funziona dal primo all’ultimo minuto.