Alla ricerca delle radici dell’odio in Shoshana, di Michael Winterbottom

Per quanti sforzi si facciano nel tentare di astrarre il film di dall’attuale contesto storico in quella striscia di terra stretta tra il mare e l’incombente continente asiatico, in quella Terra di Palestina divisa da odi e ancora riecheggiante delle religioni che in quegli stessi territori si sono sviluppate e che restano il fondamento di quegli stessi odi, ebbene per quanti sforzi si facciano, non pare possibile sottrarsi ad una contestualizzazione del film, con tutto il suo bagaglio di pregi e difetti, da ciò che accade da un po’ di mesi in quelle stesse Terre. Winterbottom, in un film diviso tra melodramma e ricostruzione storica, attraverso gli occhi di Shoshana Borochov giornalista ebrea, socialista e sionista, racconta il clima che attraversava il non ancora nato Stato di Israele, dai primi anni ‘30 dello scorso secolo fino alla sua proclamazione, alla vigilia della scadenza del mandato britannico, nel maggio del 1948, che fece sollevare i palestinesi scacciati dai territori che sentivano come propri. Una storia, quella della creazione dello Stato di Israele, fatta di sangue e attentati contro gli inglesi, che facevano valere la forza delle loro armi da Nazione che esercitava il protettorato contro il terrorismo ebraico. Gli arabi erano vittime consequenziali di questa guerra di liberazione che essenzialmente, in assetto da terrorismo, coinvolgeva le frange estreme delle organizzazioni ebraiche clandestine, l’Irgun (Organizzazione Militare Nazionale) a capo di tutte, e la Polizia inglese con i suoi funzionari. Tra i funzionari l’inflessibile e arrivista Geoffrey Morton (Harry Melling) e il più problematico e attento Tom Wilkin (Douglas Booth). Sarà Tom a innamorarsi, ricambiato, della bella Shoshana (Irina Starshenbaum), ma sarà la storia che fluisce al di là di ogni volere umano a dividere le loro strade per sempre.

 

 

Verrebbe da dire che il film del regista inglese nel suo accumulo narrativo tra storia dei luoghi e deviazioni narrative necessarie per offrire un profilo dei protagonisti della logorante guerra terroristica delle formazioni clandestine, e in più la storia privata dell’amore tra Tom e Shoshana, se diventa utile per la conoscenza dei fatti, per inquadrare i temi di una storia sicuramente non troppo conosciuta, sotto un altro profilo disperde il suo mordente in questa alternanza tra vicende collettive e private, con una esaltazione della pura narrazione in quell’assetto da fiction senza spazio, soffocando ogni altra ipotesi autoriale che non si quella espositiva di fatti e personaggi. In altre parole, Winterbottom compie un’operazione classica in questa semi-biografia della giornalista ebrea sullo scenario di una guerra di liberazione sanguinosa e senza quartiere. Non inventa nulla e nella sua didattica storica ci spinge – qui utilmente – a quell’ineludibile raffronto con il presente quando, in quegli stessi confini si combatte un’altra guerra di liberazione, che, questa volta, vede gli oppressi di quegli anni assumere le vesti di oppressori. Non è un caso che, come avverte il film nelle sue didascalie finali, la figura di Avraham Stern, considerato un terrorista durante quegli anni poiché a capo dell’ala più dura di quei movimenti, sia diventata una figura di rilievo nella lettura del presente e la sua casa sia diventata un museo. È in questo ribaltamento dei fatti e delle situazioni che il raffronto con il presente diventa più drammatico e più forte la sua difficile comprensione a parità di condizioni.

 

 
Winterbottom, va dato atto, lavora con attenzione per delineare i caratteri di Shoshana con la sua libertà di pensiero e la sua determinazione. Lontana da ogni compromesso e sicura di una differenza ideologica con il suo partner, non nasconde le sue simpatie e la sua attiva partecipazione alla Haganah, una formazione paramilitare che all’epoca era di supporto alla guerra di liberazione sebbene su posizioni più morbide dell’Irgun, con cui però finirà per allearsi nell’ultima fase di queste vicende. La vera Shoshana, scomparsa a 93 anni nel 2005, era figlia del teorico politico Ber Borochov, che da sionista socialista utopisticamente sognava una convivenza tra palestinesi ed ebrei, un sogno che la storia sembra avere frantumato dopo l’epoca coloniale inglese su quelle Terre. Shoshana ci guida in questo labirinto di storie e idee facendo del suo meglio, intessendo fatti, più che riflessioni, ma tutto sommato sapendo restituire un clima di una fase difficile di quella storia che non sembra finire, condizionata com’è dal sangue e dall’odio.