Vorrebbe essere una (sorta di) sinfonia visiva e musicale Amate sponde, ritorno alla regia di Egidio Eronico (che negli anni Ottanta insieme a Sandro Cecca realizzò uno dei capolavori misconosciuti del cinema italiano, Stesso sangue). La predominanza di movimenti della macchina da presa (o “cosa” per essa) fa pensare alla sinfonia nella costruzione di ampie volute per terra e per aria in una moltitudine di luoghi italiani accostati da un montaggio che unisce ambienti molto diversi fra essi con l’intenzione di creare contrasti ambientali e sociali. Un “viaggio in Italia” senza dialoghi e parole punteggiato da una colonna sonora, da un commento musicale (uno spettro sonoro dalle varie tonalità) a raddoppiare una saturazione visiva talmente programmata da non lasciare a chi guarda spiragli di fuga e liberazioni per l’invenzione di percorsi dentro i quali immaginare e perdersi. Tutto è lì. L’intenzione la chiarisce lo stesso Eronico nelle note di regia: “Come in una suite di Bach, con i suoi tempi o movimenti e fornita di un preludio. Questa la forma che caratterizza Amate sponde, con un impianto narrativo privo di parole e composto da sole immagini e musica. Il racconto possibile di un Paese – l’Italia – nel suo contraddittorio eppure vitalistico presente, in un film dove l’interazione fra immagine e suono mediata dal montaggio si fa racconto fisico ed emotivo”. Le intenzioni, appunto, il pre-testo. Poi, c’è il film, il testo. Che ha il suo incipit dall’alto, dal cosmo, con astronauti e la Terra vista da lassù.
E il suo seguito (nel gioco di contrapposizioni che attraversa tutto Amate sponde) in basso, con maschere tradizionali in un rituale attorno a un falò notturno (che tornerà verso la fine e costituisce uno dei momenti più affascinanti del film, assieme alla scena con l’uomo che taglia la legna in un bosco e la carica su un cavallo). Dopo questi due prologhi, così diversi, tutto il resto è una gamma di situazioni colte in tanti spazi “anonimi” dell’Italia e fatte dialogare con una narrazione didascalica per mettere a confronto (e mai in scontro dialettico) tanti aspetti del quotidiano (si pensi, uno fra i tanti esempi, alla moschea e alla chiesa accostate, ognuna con i suoi riti religiosi). Strutture e zone industriali, squarci di città, folle in transito e file di immigrati, spiagge con avventori, colate laviche, terra arida e crepata, mercati popolari, operai al lavoro, snodi stradali, interni domestici, processioni, gente povera in strada, feste, balli e raduni… E un robot bianco che in una stanza sembra “dirigere” il “traffico delle immagini”.
Affiora, inevitabilmente, quel che fece Godfrey Reggio con il trittico Koyaanisqatsi (1982), Powaqqatsi (1988) e Naqoyqatsi (2002). E si percepiscono certe derive più recenti provenienti dai sopravvalutati esperimenti “cosmico-terrestri” di Terrence Malick. Le distorsioni angolari, le riprese aeree “a volo” a varie altezze, l’uso della musica che a sua volta “rallenta” o “accelera” sono in Amate sponde segni precisi di stratagemmi estetici chiusi in se stessi. Peccato.