Mai come in questo indimenticabile anno il convenevole saluto del “restiamo in contatto” è stato probabilmente mantenuto da tutti coloro che lo hanno pronunciato. La tecnologia delle ultime decadi ha decisamente favorito una società sempre più connessa, vicina, rapida. Amici, notizie, riunioni, social network, live streaming, acquisti, informazioni, dati, coordinate: tutto a portata di mano, tutto organizzato in una rete (di contatti) in grado di alimentarsi autonomamente fagocitando l’individuo che di conseguenza risulterà sempre più sconnesso da sé stesso. Pur raccontando le mirabolanti gesta di una guerra combattuta a distanza in un bungalow del Nevada tramite, appunto, una tecnologia assassina in grado di colpire bersagli a mille mila chilometri di distanza, David Verbeek racconta proprio del suddetto scollamento, di una profonda crisi identitaria in cui il disorientamento della società non è altro che il riflesso di una lacuna individuale capace di far perdere ogni cognizione di causa. Così, la forma di Full Contact (un film tripartito in segmenti praticamente autonomi) non è altro che lo specchio del disagio esistenziale covato dal suo protagonista, un soldato in crisi morale per aver involontariamente (?) tolto la vita a dei giovanissimi.
Lo spunto narrativo di partenza e il conseguente sviluppo tematico ricordano da vicino il deludente Good Kill di Andrew Niccol (2014), eppure se in quel lavoro la componente più statunitense (del progetto e del racconto) prendeva il sopravvento, qui il cinema apolide di Verbeek è più calzante nel restituire lo smarrimento personale e topografico del protagonista (il film è ambientato in diversi Paesi e prodotti da tre diverse nazionalità). Full Contact così perde via via il contatto con la narrazione, con il suo eroe e, purtroppo, anche con il pubblico. Non è infatti semplice affrontare la sfida e scendere pazientemente a patti con la visione. Verbeek non accetta compromessi e dopo una prima parte bellica e una seconda più mistica o esoterica, accosta un ultimo segmento che in qualche modo unisce i fattori precedenti, tra violenza corporale e viaggi spirituali. Solo governando entrambe queste sfere, il corpo e l’anima, si può davvero trovare il modo di restare in contatto con il mondo, ovvero con sé stessi. Il contatto totale citato nel titolo non è altro che l’immedesimazione con chi ti sta accanto, di fronte, con chi ti guarda negli occhi. La tecnologia incentiva relazioni a distanza, d’amore o di guerra che siano. Ma il combattimento a mani nude su un ring resta la paura più concreta che si possa provare, quella più tangibile, quella più imminente perché più vicina ai nostri occhi e, di conseguenza, quella più connessa con il nostro corpo, il nostro cuore, la nostra anima.