Cristi è un poliziotto rumeno in trasferta a La Gomera, un’isola delle Canarie di fronte a Tenerife. In patria è un informatore della malavita, messo sotto sorveglianza dai suoi superiori. Qui, in questo spunzone di terra nel Mediterraneo, dovrà imparare un’antica lingua fischiata, usata dai pastori del luogo per comunicare a distanza, che gli possa permettere di continuare i suoi loschi traffici senza correre il rischio di essere scoperto. Ad attenderlo c’è Magda, una dark lady che manovra e istruisce Cristi, anche nei sentimenti. Ma in La Gomera, il nuovo film di Corneliu Porumboiu, nulla è quello che sembra. Poliziotti e criminali, detenuti e carcerieri, donne fatali e sicari isolani: i personaggi sono figure archetipiche, pronte a negare con scarti improvvisi la loro naturale decifrabilità. Tutti si muovono sul crinale di finzione e realtà e ognuno interpreta un ruolo: ogni gesto o mossa è una variante di interpretazione attoriale, una maschera che svia dalla possibile conoscenza della verità di persone e cose. La necessità primaria è quella di non farsi scoprire, di impedire la comprensione del proprio ruolo nella concatenazione degli eventi. La ricerca del tesoro nascosto – un’enorme quantità di denaro frutto del traffico di droga – è conosciuto solo da una persona e per arrivarci bisogna seguire delle regole, confondere le acque, sviare i sospetti spostandoli su altri, far credere di essere ciò che non si è.
Il film è diviso in capitoli, a suggerire un ulteriore approccio geometrico, ognuno concentrato apparentemente su un personaggio. Ma nella struttura narrativa di Porumboiu il depistaggio è parte integrante del racconto: si comincia da una storia e poi si divaga, si digredisce, si sovrappone e si mescola. La Gomera è in fondo un film in codice, sui codici. Un film di linguaggio e quindi anche di cinema e di tecnologia. Le differenze linguistiche sono modelli di esclusione; creano comunità sfuggenti incapaci di capirsi; insiemi che si rimescolano a seconda dei momenti e delle parti da recitare. Il racconto – e i suoi derivanti piani di realtà – è quindi tridimensionale e multimediale: Sentieri selvaggi si fonde con le immagini catturate dalle telecamere di sorveglianza; specchi e cornici rimandano immagini che hanno un raddoppiato senso di realtà; una sfacciata citazione hitchcockiana (la doccia di Psyco) reclama un senso nuovamente narrativo che vada oltre l‘icona; la scelta musicale – fatta di hit rock come The Passenger di Iggy Pop e di celebri momenti classici, da Casta Diva a Orff – ha una riconoscibilità che aspira a essere emblematica, anch’essa forma di linguaggio, allo stesso tempo codificata e ambigua. In La Gomera tutti guardano e sono guardati, rovesciando filosoficamente il senso dell’esperienza estetica, qui una multiforme variabile che impedisce e offusca una reale comprensione del mondo. Al centro di questo osservare senza vedere c’è il modello di una funzione (e finzione) mistificatoria e per questo sfuggente e fascinosa: quella del cinema, in fondo, e di tutte le sue potenziali variabili. Porumboiu cerca di fondere questa complessa impalcatura teorica con il racconto popolare, ambendo a costruire un noir intellettuale che non dimentichi i meccanismi della suspense e del colpo di scena. L’ambizione di costruire una sorta di Intrigo internazionale in odor di strutturalismo si inceppa però nella preponderanza della teoria rispetto alla pratica. Se Porumboiu riesce, grazie al suo talento, a innervare di una sghemba ironia questa storia di tradimenti e traditori, non sempre il piacere del racconto tiene il passo della sua ostentata brillantezza di idee. Il rischio che corre La Gomera è di scolorare nel divertissement, fiero di sé e della propria controllatissima messa in scena e della propria brillante intelligenza ma un po’ freddo, cerebrale, asettico.