Racconto di due stagioni, l’inverno dello scontento di Nuri Bilge Ceylan

Sempre più concavo, il cinema di Nuri Bilge Ceylan, sempre più raccolto in una introflessione che accoglie in sé drammi antichi e ipotesi di una modernità impossibile, collocandoli in una tensione morale che scaturisce dalle delusioni della vita quotidiana. Lo scenario innevato di un villaggio dell’Anatolia orientale accoglie il dramma di Samet, il giovane insegnante di provincia protagonista di Les herbes sèches (“Kuru Otlar Üstüne”) in concorso a Cannes76. L’attesa del trasferimento a Istanbul lo trova sospeso su un altro inverno freddo da dedicare ai ragazzini della locale scuola elementare: lui ci mette dedizione e disponibilità umana, ma basta l’ingiusta accusa di atteggiamenti troppo disinvolti, avanzata da due alunne nei confronti suoi e del collega Kenan, per aprire nella sua coscienza una voragine dalla quale scaturisce tutta la sua frustrazione e la sua fragilità umana. Le prospettive che lui cercava di insegnare ai suoi alunni non sono più le stesse e la delusione di essere stato accusato proprio da Sevim, la ragazzina nella quale riponeva le sue migliori aspettative, si trasforma in un cono d’ombra che si allunga sulla sua coscienza e sui suoi comportamenti. Samet è insomma il classico antieroe di Ceylan, dotato di grandi aspettative e intrappolato nella sua cechoviana fragilità, che però assurge qui a dimensioni pateticamente tragiche, risucchiandolo in un vortice quasi shakespeariano di tradimenti, gelosie, meschinità e colpe in cui sguazza con assurda determinazione.

 

 

L’amarezza della delusione subita si trasforma infatti in un atteggiamento di disprezzo nei confronti dei suoi allievi, che azzera ogni possibile redenzione e lo lascia senza più speranze nel futuro. Questo significa mettere in discussione la sua stessa amicizia con Kenan e la relazione che lega i due amici a Nuray, una giovane artista rientrata in paese dopo essere rimasta vittima di un attentato a Istanbul, in cui ha perso una gamba. La presenza di questa figura femminile, disinvolta e indipendente, offre a Ceylan la classica triangolazione in cui i suoi film trovano la loro ragione: l’indipendenza e la lucidità morale e sociale di Nuray diventa infatti per Samet uno specchio in cui si riflette la sua crisi interiore e si traduce in un polo d’attrazione che lo spinge a comportamenti insinceri nei confronti dell’amico Kenan, che nutre un segreto sentimento per la ragazza. Tutto viene dunque livellato in un grado zero delle attese e delle responsabilità, che si sviluppa in lunghi e articolati confronti tra i personaggi, scritti con una sapienza drammaturgica e psicologica eccezionale. Stimolato da Nuray nel corso di una cena, Samet dovrà ammettere a se stesso la propria ottusità nei confronti del mondo, l’incapacità di assumere delle responsabilità umane e sociali, l’indifferenza sostanziale con cui guarda gli altri, chiuso com’è nell’egoismo che scaturisce dalla sua insoddisfazione.

 

 

Chiave d’accesso a una disquisizione sull’impegno politico che appare significativa e inedita nel cinema di Ceylan e che non a caso viene sapientemente disinnescata da un apparentemente incongruo detour extradiegetico della messa in scena nel backstage del set. Les herbes sèches è insomma un testo che nutre la classicità del cinema di Ceylan, liberandola però in una riflessione che scavalca l’amarezza e la disillusione in una rinnovata interlocuzione con le basi sentimentali e spirituali dell’esistere comune. Il finale del film scioglie l’inverno dello scontento del protagonista in una primavera che rende trasparente ogni aspettativa e la offre allo spettatore con una dolcezza e una sincerità che libera il cinema di questo grande autore.