Non si tratta di compiere atti eroici. Si tratta di accogliere le croci di ogni giorno, perché ciascuna ha valore, di riconoscere quella plausibile aspirazione che, se si sviluppa, diventa motore della vita. E poi si tratta di aprire gli occhi per vedere, scorgere, osservare attentamente, contemplare e, infine, conservare la memoria della scoperta. In Corpus Christi la croce e lo sguardo sono immagine e vettore attraverso i quali viene messo in scena il rapporto tra l’uomo “di quaggiù” e quello “di lassù”: il corpo di Cristo e gli occhi di Daniel sono la raffigurazione di un dinamismo teso a riscoprire il peso di aperture e chiusure (di senso, di porte, di cuore) che conducono davanti alla resa, alla fuga, alla vendetta o al perdono. Indagando il rapporto tra sofferenza e abnegazione, peccato e redenzione, non mancando di respingersi, questo meccanismo in cui gli opposti si integrano è il fondamento caratterizzante Corpus Christi (Boże Ciało), terzo lungometraggio di Jan Komasa, talentuoso regista polacco, amato in patria soprattutto per il grande successo di Miasto 44, film che raccontava la rivolta di Varsavia durante l’occupazione della Polonia nella Seconda Guerra Mondiale. Da alcuni mesi è disponibile su Netflix The Hater il suo quarto lungometraggio, storia di successo e fallimento che potrebbe essere visto come secondo capitolo di un ideale dittico su salvezza e perdizione, rivolto all’intrusione di soggetti attratti e respinti da mondi chiusi e desiderati.
Qui si narra la storia di Daniel, ventenne che vive una trasformazione spirituale mentre sconta la sua pena in un centro di detenzione. Daniel vorrebbe farsi prete ma questa possibilità gli è preclusa per la sua fedina penale. Vive un’esperienza di fede autentica? Tribolata ma pare di sì. Uscendo dal centro di detenzione, gli è assegnato un lavoro presso un laboratorio di falegnameria in una piccola città, ma al suo arrivo, essendosi vestito da prete, viene scambiato per il parroco. Un equivoco che ha del miracoloso perché la comparsa di questo giovane e carismatico predicatore diventa l’occasione per la comunità, scossa da una tragedia avvenuta qualche tempo prima, per cominciare a rimarginare le sue ferite. Scritto da Mateusz Pacewicz, il giornalista che trovò la storia per primo e ne fece un reportage, il film prende spunto da un fatto di cronaca che fece discutere la Polonia e declina gli aspetti più drammatici in quella che potrebbe essere definita una parabola sulla misericordia vissuta da una nuova e convincente cinematografica figura christi. Daniel è paradigma di una cristologia implicita della kenosi e della sconfitta? Assolutamente sì. Non casualmente ricorda Bessy, la protagonista di Le onde del destino, film modello per Komasa (con tanto di citazione di campane celestiali) interessato a sintetizzare la coppia oppositiva legge/grazia attraverso la vicenda del suo protagonista. Komasa ha dichiarato di aver realizzato il film anche per affrontare «il bisogno di trovare guide spirituali nuove per i giovani polacchi», smarriti da crollo del comunismo, globalizzazione e secolarizzazione, ma risulta evidente che lo spunto gli abbia permesso di guardare in profondità lo stato di salute del suo paese: la crisi della Chiesa cattolica è speculare alla crisi di identità in cui versa la Polonia sempre più tentata dal nazionalismo.
Senso del sacrificio e desiderio di giustizia sono al centro del racconto come dimostra in modo esemplare la presenza del crocefisso interpellato dallo stesso Daniel, figura cristica efficace per come riesce a incanalare l’animo turbato di un essere umano attratto da un bene più grande ma legato dai condizionamenti terreni. Volto enigmatico, spirito libero e scaltro nell’intrufolarsi tra le pieghe di una comunità interdetta dalla rabbia e dal dolore, Daniel è in grado pure di resistere alla corruzione dei politici che bussano alla porta della sua chiesa, facile preda degli intrallazzatori locali: l’inquietudine e la sofferenza del ragazzo sono racchiuse nella potenza del suo sguardo e traducono la sua volontà di donarsi totalmente. Nonostante il rigore narrativo a tratti diventi razionalità che tende a raffreddare le emozioni con passaggi didascalici, Corpus Christi affronta il mistero delle esperienze spirituali mettendo in scena «un tragico conflitto nel quale si scontrano due distinti drammi: quello di un individuo asociale e quello di una comunità sconvolta che nasconde un oscuro segreto». Mettendo a repentaglio la sua dignità, senza riservarsi uscite di sicurezza, Daniel lascia che venga sempre più calpestata, trovandosi abbandonato dagli uomini (e anche da Dio?). Una passività che svuota l’uomo per essere riempita dall’amore (di Dio? per gli altri?), che libera dalle ipocrisie e dal male innestando una chiara corrispondenza con la salvezza a cui si riferisce il Vangelo secondo Matteo («Non giudicate per non essere giudicati perché col giudizio con cui giudicate sarete giudicati», Mt 7, 1-2) e il Vangelo secondo Luca («Chi cercherà di salvare la sua vita la perderà, ma chi la perderà la preserverà», Lc 17, 22-37).