Inizia come un suo solito film di fantasmi, anzi, Kurosawa Kyoshi affida all’incipit del suo nuovo film Daguerrotype (passato nella sezione Onde del Torino Film Festival) il compito di fare un breve passo indietro, ai suoi film precedenti, per lasciarseli alle spalle e ricominciare quasi dal principio, dalle immagini antiche che prendono il sopravvento e si ribellano al presente. Girato interamente in Francia, vanta diversi “primati”, essendo il primo film girato dal regista giapponese al di fuori del suo paese, interamente in lingua francese e con attori francesi. Una rivoluzione produttiva che s’insinua, com’è necessario, nello sguardo di Kurosawa, e cerca appigli nella cultura europea, nelle ossessioni gotiche, nei colori opachi e in tonalità tendenti al nero, trasformando l’ambientazione in un luogo senza tempo, immerso nella nebbia densa e cupa. Il sobborgo di Parigi dove è ambientata quasi tutta la vicenda, appartiene ad un mondo in via di distruzione, con le nuove costruzioni che spingono per uniformare il paesaggio e cancellare antiche dimore scricchiolanti, con scale monumentali e angoli misteriosi e una vegetazione selvaggia a dare il tocco di eterna decadenza. È naturale, allora, che parallelamente alla speculazione edilizia, si consumi l’ultimo atto di una storia senza tempo, dove i meccanismi sempre uguali e ripetitivi si spezzano mandando letteralmente in frantumi una composizione armonica e crudele. Kurosawa mette insieme variabili di un’equazione ormai impossibile, perché impossibile è fermare il tempo. Di questo si tratta, ancor prima che dei fanasmi che tornano a tormentare i vivi per cercare vendetta.
Stéphane è un ex fotografo di moda che da anni, ormai, studia il modo di riprodurre dagherrotipi di 170 anni fa. Per farlo usa la figlia Marie come modella, impegnandola in interminabili sedute, e prima di lei la moglie Denise, morta suicida dopo una lunga malattia. La sua ossessione sono i ritratti a grandezza naturale che regalano l’immortalità, secondo Stéphan (e secondo una supersizione del Diciannovesimo secolo), semplicemente donando qualcosa di sé a quella lastra unica e ben diversa da ciò che intendiamo oggi con il concetto di immagine. Irriproducibile ma eterna, che ha bisogno di un lungo tempo di esposizione nell’immobilità del soggetto, togliendo letteralmente un frammento di vita a chi posa per ore, incatenato ad un’anima di metallo. Ma l’ossessione del protagonista va oltre, e, ovviamente, infrange le regole e valica il territorio dell’allucinazione. Impaurito e prepotente, distrugge ogni forma di vita attorno a sé, per catturarne un frammento e imprigionarlo per sempre. Come il più folle degli inventori, manipolatore di una realtà ormai irreale. Viene in mente Storia di Marie e Julien con cui Rivette raccontava il mito dell’amour fou tra un uomo solitario nella sua villa fatiscente e una donna misteriosa, custode di un terribile segreto. Anche in quel film il tempo rappresentava una sorta di vincolo, una vera e propria prigione che prendeva forma in modi diversi, una sorta di proiezione mentale (o fantasmatica) che si insinua e stravolge la vita quotidiana. Parola inappropiata, come fa notare Stéphane al giovane Jean, assunto come aiutante fotografo e poi precipitato senza accorgersi nella sua stessa spirale di morte. Gli yōkai sono tornati a manifestarsi nel cinema di Kurosawa, e si aggirano smarriti, vendicativi o ansiosi di vita, ma questa volta sono come le visioni di Cocteau, Poe e Franju.