Deadpool 2: distruggere per includere

L’approdo di David Leitch alla saga di Deadpool è coerente con il percorso di un regista che già nei precedenti John Wick e Atomica bionda aveva dimostrato una peculiare predilezione per la descrizione dell’azione in termini non necessariamente realistici. Una deriva quasi cartoonesca, che trova una corretta prosecuzione nell’abbattimento della quarta parete portato avanti dal Mercenario Chiacchierone. Proprio in tal senso, Deadpool 2 implementa il discorso demistificatorio del precedessore, frantumando le coordinate del racconto anche a livello temporale: il futuro diventa il presente, l’attualità gestisce i traumi che verranno e infine il protagonista proverà magari anche a cambiare il passato. Non c’è paradosso in tutto questo, non si avvertono in modo particolare le conseguenze degli scossoni assestati alla continuity perché in fondo Deadpool è già fuori dagli schemi della narrazione tradizionale. E il fatto che mentre distrugge tutti i canoni consolidati, cerchi di fondare una mitologia alternativa, è altrettanto coerente con la sua filosofia. In effetti, l’aspetto più interessante di Deadpool 2 è la sua natura inclusiva e il suo desiderio sotto certi aspetti “normalizzante”: l’assassino sogna la quotidianità dell’uomo qualunque, rimpiange l’amore perduto e l’anniversario passato a casa in tranquillità, ma è costretto dagli eventi seminati nel passato a ripiombare in trincea.

Forse anche per questo poi si esalta in modo particolare se i membri del suo team non hanno particolari poteri, come l’umano Peter – un po’ come accade con le creature di Vita da vampiro di Taika Waititi che adorano l’insignificante umano Stu, e non ci stupirebbe affatto vedere prima o poi anche il geniale autore neozelandese alle prese con Deadpool. L’abbattimento della linearità narrativa diventa perciò una tappa obbligata, mentre si cerca di creare legami, in una sorta di famiglia alternativa che poi è una riscrittura di quella “tradizionale” degli X-Men, adeguata alle coordinate del nuovo corso nonsense. Mentre si ricostruisce si continua perciò a distruggere, i personaggi cadono come pedine e cercano di fermare uno di loro che è a sua volta un distruttore su larga scala in erba. Inclusione e esclusione si rimpallano continuamente, producendo una vertigine che è tanto più efficace quanto coerente con l’intero palcoscenico dell’inverosimiglianza, dove a prevalere è il gusto della messinscena spettacolare e della caratterizzazione sopra le righe. In questo modo Deadpool 2 riesce a rinnovare quel senso liberatorio del primo film, anche se in modo forse un po’ meno irriverente, perché consapevole della “familiarità” ormai stabilita con un pubblico che ha accettato in fretta questo nuovo corso. Il margine d’azione assicurato a Leitch è dunque tanto più ampio quanto più il regista riesce a tenere insieme queste due anime apparentemente disgiuntive, sottolineando i momenti lirici nella sinergia fra le coreografie d’azione e l’uso espressivo dell’accattivante colonna sonora, salvo poi spesso rimescolare le carte per produrre un effetto tanto spiazzante quanto spettacolare. Non è un’alchimia facile e funziona anche per la buona sinergia con un cast vincente: Ryan Reynolds ormai governa il personaggio con scioltezza, e ha la sfrontatezza di non assicurarsi un cameo al naturale fin quasi alla fine del film. Con lui il roccioso Josh Brolin, che a tratti irride quasi il Thanos marveliano pur assecondandone la stolida ostinazione. E l’affascinante Zazie Beetz, la Domino che procede a colpi di fortuna, il personaggio ideale per la particolare bizzarria del film, che forse avrebbe meritato maggiore spazio. Siamo già pronti per l’eventuale numero 3, insomma…