Digito ergo sum: The Dissident di Bryan Fogel su Miocinema

Si intitola The Dissident ma dovrebbe esserci una s in più in finale di parola, di modo da declinare il termine al plurale. Il nuovo documentario diretto da Bryan Fogel, regista premio Oscar nel 2017 per Icarus, rispecchia fedelmente le caratteristiche autoriali a lui più care. Dal particolare al generale, dal singolo al collettivo: The Dissident non è una discesa negli abissi, ma una risalita verso un’altura, una cima dalla quale scorgere il panorama (ovvero la problematica) nella maniera più ampia e completa possibile. Raccontando parallelamente la storia di un giovane attivista di nome Omar Abdulaziz e quella del suo compianto punto di riferimento, il giornalista Jamal Khashoggi, Fogel pone al centro dell’indagine due dissidenti che sono in realtà i massimi esponenti di uno sciame (termine volutamente usato anche in uno dei passaggi più interessanti e riusciti del film) di giornalisti o semplici cittadini che hanno deciso di alzare la voce. In maniera lucida e serrata, il film incalza lo spettatore con toni da vero thriller di spionaggio. Abbiamo un terribile fatto di cronaca (l’omicidio di Khashoggi), un espatriato in fuga (Abdulaziz) e una giovane donna rimasta senza compagno in cerca di verità (Hatice Cengiz). Gli ingredienti per tenere sulle spine le platee di tutto il mondo ci sono tutti. Se poi ci aggiungiamo un tocco di politica contemporanea e un’indagine accurata sulle potenzialità dei social media, allora la questione diventa davvero di dominio pubblico.
Questo è l’aspetto più interessante di The Dissident. Il film è un prodotto perfettamente scandito e fruibile, in grado di coinvolgere grazie all’ausilio di un ritmo televisivo con tanto di infografiche animate e altri elementi decorativi. Fogel si comporta da giornalista d’inchiesta ma sa bene che per arrivare al cuore di tutti deve sporcarsi un po’ le mani e trovare la quadra con uno stile semplice e immediato. Il tutto funziona e il film rispecchia nel profondo le logiche narrative di certi grandi lungometraggio d’intrattenimento, tanto che in alcuni passaggi sembra che la finzione abbia preso il sopravvento. Eppure non solo è tutto vero, ma è tutto anche molto più vicino al nostro vissuto e al nostro quotidiano di quanto non sembri.

 

 

Il film si trasforma infatti in una disamina accurata e imparziale sull’uso e le potenzialità dei social media. Twitter, nel particolare, viene preso a esempio come mezzo di grandissima potenza mediatica con cui provare a sovvertire regimi ma anche come sistema lampante per esercitare le pratiche di controllo più care alle politiche totalitarie. La verità in The Dissident è quasi sempre relativa. Un fenomeno lo si può analizzare, scomporre, indagare da molteplici punti di vista e solamente allargando lo sguardo potremmo allora avere di fronte a noi il riflesso più simile alla verità. Il dissidente del titolo continua a ripeterlo. I dissidenti che ascoltano, lo prendono come esempio. Noi spettatori possiamo, o meglio, dobbiamo dare il nostro contributo. Dobbiamo diventare dissidenti che guardano. Solo così facendo un comportamento e un’idea possono diventare virali. Da un individuo, a una massa. È quello che accade sotto dittatura, ma è quello che può accadere alla stessa maniera proprio per farle cadere, le dittature. Il sacrificio (se così possiamo chiamarlo) di Khashoggi non deve rimanere tale. Deve diventare un elemento cardine dal quale far scaturire un cambio di rotta, una rivoluzione. Anni fa si usavano le parole, poi i volantini. Oggi si usa Twitter. Il processo è lo stesso, la velocità di esecuzione notevolmente diversa.