Opera prima di Giorgio Caporali, autore anche della sceneggiatura che prende ispirazione da storie realmente accadute e che in parte rielabora vicende autobiografiche, al netto di sbavature e forzature, L’arca è un titolo da prendere sul serio: vivace, per nulla compiaciuto, attento quando s’interroga seriamente, appunto, sulla condizione giovanile senza inciampare in facili compromessi o senza prestare il fianco a mondani ritratti didascalici di convenienza. È un film non privo di improvvisi rovesciamenti che scoperchiano il lato più emotivo dell’intreccio costruito su una solida idea, un tema forte, un assunto, che sovverte i codici rappresentativi e narrativi del cinema contemporaneo intento a portare in scena storie di immigrazione e alienazione, storia di sopravvivenza e lotta, ma anche definito da un sorprendente epilogo luminoso ma non banale. Il disilluso Ryan, giovane africano clandestino che fugge dal suo tutore legale, sfiduciato dal sogno europeista e convinto di tornare in Africa nonostante la grande paura dell’acqua, conseguenza del viaggio che lo ha condotto in Italia, incontra sul proprio cammino il ribelle e scanzonato Martin, vestiti eccentrici e treccine bionde sui capelli, una via di mezzo di stili, un miscuglio di identità, un crogiuolo di storie. Due strade che convergono davanti a una barca da sistemare (che prende il nome di Cassiopea e ispirata dall’auspicio dell’amore giovanneo) e riportare in mare, per cullare il sogno di un paradiso da raggiungere e un inferno da abbandonare.

Una nuova fantasia a cui aggrapparsi e che affascina pure la disciplinata Beatrice, ben integrata e ben collocata, con le spalle coperte e il futuro garantito ma senza una vera domanda di felicità a guidarla, una stella a indicarle il cammino. Così il trio apre gli occhi, vede qualcosa che altri nemmeno sanno esistere, lavora di fantasia, si lascia cullare da onde immaginarie, condivide un’intimità che diventa una vera ancora di salvezza, un approdo, un rifugio che conserva interrogativi e idee, progetti e paure, voglia di vivere e paura di fallire. Non sarà così impossibile e spiacevole credere al loro entusiasmo da “pirati” che finalmente hanno deciso di prendere in mano la propria vita al costo di saccheggiare le aspettative di adulti incapaci di ascoltare e soprattutto di vedere, disposti a riscrivere un copione definito.

Un film piccolo ma coraggioso, senza dubbio onesto, che lavora su vedute particolari e strette per poi allargare il campo su una visione d’insieme, che rimastica e ricicla, rilanciandolo, il significato di concetti usurati dal nostro tempo (famiglia, eroismo, amore, felicità, carriera) e colloca al centro del suo interesse il valore di immagini che vogliono lasciare il segno, tanto nei protagonisti quanto nello spettatore. Un atipico racconto di formazione che guarda agli umani vissuti dei suoi protagonisti, ai loro i drammi esistenziali, alle loro domande di senso con l’attenzione di chi non vuole giudicare ma sceglie di posizionarsi rispettoso delle distanze di una gioventù consapevole di essere viva e imperfetta ma ancora disposta a soffrire per acciuffare i propri sogni. Un viaggio all’indietro in tutti i sensi che riporta alle origini, a una grazia forse acerba ma autentica.


