La decisione di concludere la storia cinematografica di Ip Man può apparire ormai scontata, essendo passati ben undici anni dal fortunato primo capitolo, ma porta con sé implicazioni non da poco, dato l’impatto culturale che la saga ha avuto in tutto il mondo. L’idea di raccontare la vita del Maestro di Bruce Lee, nata probabilmente come ennesimo e terminale tentativo di rinverdire i fasti della Bruceploitation – quei titoli che cercavano di andare in coda al successo di Lee, in quanto icona marziale tuttora indiscussa – ha finito invece per assumere vita propria, portando a un rilancio del Wing Chun nelle scuole di arti marziali e generando un ulteriore sfruttamento del personaggio attraverso vari progetti autonomi (Ip Man: The Legend is Born, Ip Man: The Final Fight e il più noto The Grandmaster). La decisione del regista Wilson Yip e dell’attore Donnie Yen di tornare per questo Ip Man 4 – The Finale (da noi in anteprima streaming al Far East Film Festival) ha dunque innanzitutto il merito di riportare al centro della scena il team originale, ma anche di riflettere su una delle poche icone puramente cinesi attualmente spendibili da una nazione che attraverso il cinema sta tentando di imporre la propria credibilità di superpotenza e ricettacolo di influenze culturali globali per il nuovo millennio. Non appare così casuale che l’ultimo arco narrativo porti Ip Man in America al fianco dello stesso Bruce Lee – che rivediamo in una credibile ricostruzione delle esibizioni al torneo di arti marziali del 1967 – in una chiusura del cerchio che rilanci la figura del Maestro quale alfiere di una transculturalità che già era propria del suo celebre allievo.
Se quindi Ip deve scontrarsi innanzitutto con la comunità cinese di San Francisco, refrattaria alla decisione di Lee di insegnare le arti marziali anche agli americani (evento storicamente esatto), ben presto la posta in gioco viene alzata in un confronto tra le tecniche cinesi e il karate che gli States hanno già assimilato nelle basi militari in seguito ai trascorsi dei soldati in Giappone durante la Seconda Guerra Mondiale: un humus da cui storicamente verranno fuori anche nomi come Chuck Norris (che studiò in Corea sotto le armi) e, in questo senso, il duello fra Ip Man e il sergente Geddes dei Marines (interpretato dalla star marziale Scott Adkins) ha il sapore di una riproposizione aggiornata di quello fra Lee e Norris al Colosseo ne L’urlo di Chen terrorizza anche l’Occidente. D’altra parte, fin dai primi capitoli, la saga ha sempre dimostrato di voler difendere una “cinesità” minacciata dalle spinte dominatrici delle altrui culture (quella giapponese nel capostipite, quella inglese nei sequel e ora quella americana), ma stavolta l’atteggiamento appare meno passivo, dove la rivalsa non sia disgiunta da un ecumenico tendere la mano all’avversario in favore di un’identità “fluida”: la posta in gioco, non a caso, è poter far entrare il kung fu nelle discipline di combattimento proprie dell’esercito americano per ottenere così il riconoscimento del “nemico”.
La doppia spinta interna e esterna (rompere il tradizionalismo della comunità cinese e piegare il rigido imperialismo americano) conferisce così a Ip Man 4 un andamento più composito che si ritrova poi nella figura divisa di un protagonista scisso fra il senso del dovere verso la famiglia – il viaggio a San Francisco serve per trovare una scuola per il figlio – e l’incapacità di essere un genitore comprensivo (il figlio ha un animo ribelle e allo studio preferisce le arti marziali). Proprio questa problematicità permette alla storia di gestire le varie microstorie con scioltezza, giocando con le iconografie o ribaltandole: nel primo caso abbiamo quindi un Bruce Lee interpretato da Danny Chan, già alter ego del divo in tv, mentre le rivendicazioni dei cinesi che ricordano di aver aiutato a completare la ferrovia tra le due coste e di essere emarginati nonostante questo, rimanda alla serie Warrior, basata su scritti dello stesso Lee. Dal versante opposto c’è Wan Zong-hua, maestro di taichi che in barba alla struttura meno codificata della sua arte si dimostra un personaggio poco flessibile, lasciando così brillare di più il Wing Chun di Ip Man. Su tutto si staglia l’aura crepuscolare di un finale iscritto nel male che porterà via Ip pochi anni dopo e che permette pure a Donnie Yen di oscillare fra l’aura dolente dell’uomo che ha ancora una missione da compiere e quella dell’irriducibile maestro che lascia esplodere i suoi colpi nei combattimenti acrobatici del celebre coreografo Yuen Woo Ping. Altro esempio di transculturalità che questo eccellente capitolo finale può sbandierare con orgoglio.
Guarda il film on demand (sino al 4 luglio)
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