Con un incipit che ha del magistrale, in un percorso deduttivo dentro quel mondo di immagini che danno forma alla nostra vita, il bolognese Parisini, giunge al tema del suo film a metà tra il biografico e il saggistico partendo da quell’immagine che potenzialmente tutte le altre contiene in quell’unico e primitivo sguardo che dalla luna, per la prima volta, veniva gettato sul nostro pianeta con una visione irripetibile quanto a fascino e storia. Da questa originaria immagine che ripete ma anticipandola, la lezione godardiana del telescopio e del microscopio, parte il viaggio in quell’infinito guardare, che è stato e che è il mondo universale della fotografia di Luigi Ghirri. Da sempre, da quando almeno l’incontro con la sua fotografia è divenuta materia di riflessione, le immagini che il fotografo di Scandiano ha elaborato hanno abitato un’idea di incertezza dello sguardo e della sua finitezza che la fotocamera sapeva integrare. Il suo rapporto con il soggetto era sempre relativizzato in funzione di questa incapacità congenita di cogliere l’imprevisto. È per questo che le fotografie di Ghirri, nella loro naturalità della costruzione, priva di composizione artificiale, quanto piuttosto legata a un sentire che espande il senso di conoscenza, con l’obiettivo che seziona il reale, sembra davvero che ci appartengano sapendo tirare fuori da noi stessi qualcosa di sconosciuto che ci abitava e che non sapevamo di conoscere.
Infinito, non è solo una parte del titolo del film di Parisini, ma è anche il nome dell’archivio che raccoglie il lavoro del fotografo reggiano oggi curato anche dalla figlia Ilaria dopo la sua prematura scomparsa nel 1992. Il film ripercorre la sua vita che da geometra e quasi agrimensore in quella misurazione dello spazio di cui professionalmente si occupava, fu piacevolmente risucchiato dalla vita del fotografo che fotografava nell’utopico desiderio di misurare lo spazio infinito. Scorrono dentro una memoria tutto sommato breve le immagini di Ghirri che senza alcuna spocchia intellettuale, ma piuttosto con il cavalletto in spalla, in una specie di rievocazione dell’originaria funzione quasi ivensiana del cinema – esserci dove bisogna – attraversava quella bassa pianura padana reinventando con il suo occhio lineare e geometrico gli sguardi su quelle immagini che smettevano di essere quotidiane per depurarsi e offrire all’osservatore una nuova visione dentro la quale fosse possibile rinvenire – come direbbe Magris – quell’infinito viaggiare dell’occhio e della mente adattabile a ogni altro luogo, a ogni altra ricerca di identità. È proprio questo forse il tema più subliminale che riemerge guardando le immagini del fotografo, quella capacità di infondere alle sue immagini una precisa identità, eppure di lavorare su una astrazione profonda della realtà da renderla totalmente teorica e quindi primitiva e da tutti riconoscibile poiché appartenutaci anche a nostra insaputa. In questa prospettiva si comprende la ragione per cui le sue figure umane sono riprese di spalle, privandole di una precisa identità, ma offrendo la possibilità di attribuire altrettante e innumerevoli identità.
È con questo bagaglio deduttivo che le immagini di Ghirri, come sottolinea lo storico dell’arte Arturo Carlo Quintavalle, colmano quella iconografia mancante del particolare e dell’inconsueto ed è in questo senso che la sua fotografia si indirizza verso lo stupore della scoperta, che non è vero che non c’è nulla di nuovo sotto il cielo, ma c’è sempre qualcosa ancora di cui stupirsi, da ricercare, da interpretare e quindi ritrarre in quella fotografia che è sempre guardare il mondo per conoscerlo. Infinito, l’universo di Luigi Ghirri, ha il pregio di raccogliere e offrire al suo spettatore queste istanze, adattandosi, anche da un punto di vista formale a quella forma dell’immagine che a Ghirri apparteneva, in una coincidenza di linee, in uno sezionamento dello spazio che sa risolvere, in modo anche originale e inatteso, le alternative possibilità della sua divisione. Sono i suoi amici a tratteggiare, invece, i fatti salienti della sua vita conclusasi purtroppo troppo presto, le sue vicissitudini sul lavoro di immobiliarista, non particolarmente amato e la sua passione girovaga e sempre più assorbente per la fotografia. Parisini sintetizza proprio con le immagini fotografiche dell’artista quel percorso di ricerca intrapreso con l’abbandono progressivo da parte di Ghirri del lavoro più consueto e astraendo dai suoi stessi testi il senso di quell’ininterrotto scavo in una realtà conosciuta, ma che sapeva diventare nuova e ancora stupefacente attraverso quelle immagini, ci ha saputo offrire un ritratto di un fotografo che aveva un occhio prezioso e una ricchezza nello sguardo che sapeva finalizzare in quei ritagli di mondo che riprendeva e che contenevano la nuova luce che diversamente illuminava quel tutto già visto: Non c’è niente di antico sotto il sole.