“Houria” in arabo ha significato di “libertà”, e anche di “donna indipendente”, ed è nome femminile traslitterato in varie forme. Di libertà, di indipendenza delle donne, di scelte libere e coraggiose e talvolta pagate a duro prezzo, parla Houria, secondo lungometraggio di Mounia Meddour che aveva esordito nel 2019 con Non conosci Papicha, ovvero un film che, nelle parole della cineasta algerina, descriveva la storia di «una ragazza attraente e indipendente». Lo è anche la protagonista di Houria (in concorso alla Festa del cinema di Roma) il cui nome dà il titolo al film. Una giovane donna appassionata e talentuosa danzatrice classica che, fin dalle prime immagini, vediamo impegnata in allenamenti solitari o di gruppo e a lenire le ferite ai piedi che gli esercizi provocano. La macchina da presa la filma da distanza ravvicinata alfine di cogliere i suoi gesti, il suo respiro, la sua fatica, “danza” attorno a lei – con scelte di luce e manipolazioni cromatiche che però non convincono e che permarranno nel corso del film. Houria balla, ma quella non è ancora una professione: intanto fa la donna delle pulizie in un albergo insieme all’amica del cuore Sonia, la quale desidera lasciare l’Algeria e trasferirsi in Spagna per iniziare una nuova vita, anche a costo di traversare il mare su un barcone di notte perché il visto le è stato rifiutato più volte (e la sua voglia di libertà, a differenza di Houria, verrà stroncata tragicamente), e la sera frequenta i combattimenti clandestini di arieti perché, se vincerà, potrà usare quei soldi per aiutare la madre Sabrina, anche lei donna che rivendica una propria indipendenza.
Tutto ruota attorno a Houria (ritroviamo Lyna Khoudri, già interprete di Non conosci Papicha, brava ma questa volta meno intensa, come lo è anche il film nel suo insieme) e tutto cambia quando la ragazza viene aggredita per strada da Ali (un ex terrorista islamista pentito – perché in sottofondo Houria affronta anche questioni tuttora brucianti della storia algerina e mette in campo personaggi “secondari” ma importanti come l’attivista alla quale si rivolge Houria e che sembra ormai avere abbandonato il suo impegno militante oppure la poliziotta insolente che non si cura minimamente di intervenire per arrestare Ali). Da quel momento Houria non parlerà più. Un mutismo nato dallo shock subito e infine volontario (la sua voce la sentiremo solo, in forma di urla, nell’attimo in cui si reca con la madre all’obitorio per riconoscere il cadavere di Sonia), mentre la sua “missione” diventa quella di creare un gruppo di danza (la madre, anche lei ballerina, le è sempre accanto) frequentando e coinvolgendo un gruppo di donne molte delle quali sordomute (e nel passare da un ambiente a un altro il film risente di passaggi diegetici poco elaborati). C’è speranza. C’è determinazione. C’è l’ostinazione a riuscire nella propria impresa. Meddour descrive l’ascesa infranta, la riabilitazione fisica e mentale, la ri-nascita di una ragazza. Offre alla giovane protagonista una luce nel suo futuro. Se quindi il “messaggio” è chiaro e necessario, lo sguardo è però carente di “presa” sui corpi e sui luoghi filmati, scivola troppo su entrambi, non penetra la superficie. E anche dal punto di vista musicale certe scelte paiono più appiccicate che significanti, o significanti anche qui in maniera schematica (si pensi all’inserimento di due canzoni italiane spesso incontrate in film non italiani come Felicità di Al Bano e Romina Power e Gloria di Umberto Tozzi o al frammento di Casta diva con la voce di Maria Callas).