Un melodramma disabitato, in fuga dalle stanze dell’amore, sospeso su una gestualità filmica che utilizza i piani come fossero campi e viceversa, spingendo le figure e gli spazi in una passionalità compressa e contraddittoria, che fa male come da tempo non succedeva nel cinema italiano. Dove non ho mai abitato è un film dolce e intenso, che dissimula la rassegnazione delle vite inespresse dei due protagonisti nella pacatezza sotto vuoto spinto del loro habitat alto-borghese: architetti che costruiscono case per gli altri e non sanno abitare le proprie vite, il vecchio Manfredi (Giulio Brogi), sua figlia Francesca (Emmanuelle Devos), il suo delfino Massimo (Fabrizio Gifuni). Ognuno stretto nel suo spazio, ognuno capace di disegnare un perimetro di comoda solitudine per le proprie esistenze. Paolo Franchi li dispone nello spazio della scena come fossero elementi intimamente dissonanti, come se la loro presenza non corrispondesse alla verità del loro esserci: tradiscono se stessi, i loro gesti, le emozioni che esprimono. E l’amore, che fatalmente incede verso di loro con passo leggero, quasi come un respiro che si impossessa della loro apnea, è l’unica figura che Franchi sembra voler davvero gestire sulla scena, la forza dinamica – drammatica – da sagomare per dare forma a un film che vuole e sa essere veramente emozionante. L’ergonomia su cui si regge Dove non ho mai abitato è il punto di equilibrio tra la negazione e l’esserci, tra il disabitare e l’occupare uno spazio: Manfredi si distacca dal ricordo della moglie, amatissima eppure mai nominata, e occupa il presente della figlia, la costringe ad esserci, fermarsi, stare nella casa, nello studio, nel lavoro da cui è fuggita. Francesca ha preso le distanze da se stessa, rifugiandosi a Parigi, sposandosi a una vita comoda che non le dice nulla, e inciampa in un ritorno che la occupa in un amore involontario. Massimo, infine, che raccoglie in sé il sogno di Manfredi, la continuità che la figlia non ha voluto garantirgli, e l’inespresso bisogno di Francesca di rinnovarsi, mentre vive in se stesso il tormento crescente di ritrovarsi vuoto, senza vero amore, senza vita, senza uno spazio da abitare davvero.
L’ordine psicologico con cui la drammaturgia sistema le cose nel film scavalca l’esigenza di un dinamismo classico: le figure in campo dicono battute preordinate, ma intanto senti che il film segue una sua libertà interiore, si sgancia dall’ordine sistemico del dramma per affidarsi intimamente alla verità dei personaggi. Che infatti giganteggiano sempre di più, tutti, straordinariamente, persino quelli secondari (basti pensare a Benoît, il placido marito di Francesca, che sta lì nella sua dolce impassibilità, quasi degno di un film a sé; o a Paolo e Giulia, la coppia che deve andare ad abitare la villa in ristrutturazione). Paolo Franchi sospinge gli elementi come fossero folate di vento che arrivano regolari, dando al film un respiro profondo che diventa ritmo emotivo, come se Bellocchio e Bertolucci si riflettessero l’uno nell’altro. L’intelligenza di fare un film in cui i volumi si sostituiscono agli spazi è fondamentale per l’equilibrio dinamico dell’insieme, perché Dove non ho mai abitato ignora perfettamente la dimensione del filmare le architetture e gli spazi urbani. Il film è tutto costruito sugli interni, sui volumi che contengono le figure. Gli spazi si dissolvono al di là di finestre e finestrini d’auto, come fossero uteri da negare (la sola scena che si colloca davvero in uno spazio esterno è quella della fontana costruita dalla madre di Francesca). La villa di Paolo e Giulia, che si erge nella libertà della montagna come prisma di luce e rosa dei venti, è il vero punto di fuga di una prospettiva spaziale che resterà negata: e lì che si combatte la guerra tra spazi e volumi: una parete da spostare oppure no, una poltrona da mettere, infine il faro sul soffitto immaginato da Francesca… Il “dove” in cui questo film non riesce ad abitare è fatalmente l’amore che offre ai suoi protagonisti come una circostanza mancata: come fossimo in un film di Olmi degli anni ’70, la salvezza e la disperazione abitano lo stesso spazio, che è quello della vita in cui Francesca e Massimo sono costretti. Un’ultima, necessaria nota: Gifuni sa trovare toni intermedi come pochi altri italiani, ma soprattutto Emmanuelle Devos, offre a Francesca un respiro emotivo che arriva davvero in profondità.