Zombie contro Zombie è il titolo scelto dai distributori italiani per One Cut of the Dead, titolo internazionale che già evidenzia nel suo rimando al piano sequenza il sapore metafilmico di questa piccola pellicola indipendente e a basso costo che è diventata, anche per questo, un fenomeno di culto. Il titolo giapponese (Kamera o tomeru na) è ancora più diretto nell’indicare quale sia lo spunto iniziale del film: “non fermare la camera!”. E per 37 minuti la camera non viene fermata, in un volutamente imperfetto piano sequenza, dove il film entra nel film perché il regista (interpretato da Takayuki Hamatsu) ha deciso di rischiare e far rischiare la morte ad attori e troupe, pur di non perdere la veridicità della paura e dell’orrore, riprese dal vero. Nulla di nuovo se non fosse che a determinare questo impulso a non fermare la camera, sia lo scoprire che uno dei presunti zombie non sia un attore truccato, ma un vero zombie, che inizia a mordere tutti. L’intento di chi sfugge ai loro morsi, e con loro di noi spettatori partecipi, non è più quello di sopravvivere, ma di sapere se riusciamo ancora a… “non fermare la camera!”. Posto che la staffetta funzioni l’ultimo operatore sarebbe anche l’ultimo mancato spettatore. Non potrà evitare di essere morso e trasformarsi lui stesso in zombie e questo film diventerebbe davvero l’ultimo piano sequenza, il piano sequenza dei morti, il one cut of the dead. A vederlo non ci sarebbe più nessuno. A prefigurare questo scenario orrorifico, ci saremmo aspettati il classico finale aperto e un “attento stanno arrivando, non fermare la camera se li incontri”. Invece no.
Sapientemente, l’esordiente Shin’ichirô Ueda (34 anni, regista, sceneggiatore e montatore del film) non prolunga oltre il piano sequenza, rischiando di farne niente più che un divertissement, per alcuni anche noioso, ma si chiede, nello sviluppare il plot, come potrebbe essere che l’impulso a non fermare la camera contamini e si diffonda come un vero morbo. Inizia così un gioco di scatole cinesi, dove il primo naturale passaggio è che quel piano sequenza sia stato progettato e attuato da un’emittente televisiva per attirare spettatori sul proprio canale. Cos’altro se non una messa in onda può renderci spettatori e al contempo vittime? Ed anche questo secondo livello rischia di essere banale e viene immediatamente scavalcato da un terzo, e così via. Sino al vero divertimento del gran finale, dove scopriremo in una sorta di backstage mozzafiato, simile ad una slapstick convulsiva, come la vera troupe sia riuscita a riprendere gli attori che fingono di essere la troupe che fugge, che riprende e che si trasforma in zombie. L’orrore, se mai c’è stato, è svanito nel nulla. Il divertimento però è assicurato. Ma come una buona commedia, svaniti gli ultimi sorrisi, ci fermiamo a pensarci su. Ricomponiamo allora anche noi questa scatola cinese. Cos’altro è lo zombie se non l’incubo della massificazione, di un orrore privo di qualità e individualità, vittoria definitiva della specie sugli individui, eliminazione della morte tramite la morte, la non-vita? Non è la loro cattiveria a far paura, non sono mostri, non hanno desideri, non vogliono nemmeno uccidere. Sono stupidi, o ancora peggio, non hanno volontà, non hanno scopo e questo li rende potenti, una macchina inesorabile che prende possesso di tutto, portando ad un annullamento che è omologazione. Preesistenti al loro presunto esordio cinematografico, entrano con forza in scena con La notte dei morti viventi di George Romero perché incarnano le peggiori paure del consumismo omologante. Un invito implicito a resistere, ad opporsi e tentare la fuga. Fermate il mondo, voglio scendere! Oggi no, siamo già scesi tutti. Non c’è nemmeno la possibilità di resistere, perché non è più il consumo, ma l’esistenza stessa, non l’oggetto ma il soggetto, è la società dei social e della connessione permanente, del sogno per l’appunto di una realtà virtuale, dell’immaterialità dei nostri stessi corpi. E se all’inizio questo è il piano sequenza e poi il suo uso in condivisione, alla fine, quando anche noi ci divertiremo a vedere come il film stesso si è costruito, ci verrà il sospetto che siamo già zombizzati. L’unica cosa che ci resta è andare avanti, non il cinema ma il film making del film making. Il cinema non può più morire, e quindi risorgere, o resistere a una morte annunciata e rifarsi. Il cinema è già un non morto, è uno Zombie. Sopravvive all’infinito e i suoi passi senza senso sono il “fare il cinema”. Non fermare la camera. Passala a me! L’esplosione di gioia al termine delle proiezioni, le standing ovation che hanno accompagnato il film nelle sue proiezioni, in Italia per primi a Udine, in aprile al Far East Film Festival come film di mezzanotte (dove ha vinto anche il premio, assegnato come sempre dal pubblico), sono il segno di come questi quattro ragazzi giapponesi, con un film costato poco più dell’equivalente di 20.000 euro (3 milioni di yen), raccolti in crowdfunding, abbiano fatto centro. Oggi sono distribuiti dalla più grossa rete cinematografica del Giappone. Buon per loro, avendo sino ad oggi già superato i 20 milioni di dollari di incasso, con vendite in tutto il mondo.