Il Club: la morte in corpore vili

1446754596-01882057030300C’è una colpa, che grava netta e indistinta, portandosi dietro tutto il peso della rimozione. Ed è evidentemente proprio questo ciò che conta per Larraìn, l’elemento che incide la materia di El club: la presenza della rimozione, la sostanza impalpabile eppure vischiosa del non detto. Il silenzio, che striscia sotto ogni gesto compiuto con esibita normalità in quella casa battuta dal vento sulla costa cilena, ha la stessa tonalità pallida eppure graffiante della fotografia di Sergio Armstrong (fondamentale DOP di tutti i film di Larraìn, da Tony Manero in avanti), illanguidisce la verità sottaciuta sino quasi a dimenticarla. Perché quei quattro religiosi siano raccolti in quella casa di penitenza lontano dal mondo, accuditi da una suora a orologeria che impartisce con la medesima aEl-clubmbigua familiarità attenzioni e regole, non è dato sapere, eppure è già noto. La colpa disgiunta dal colpevole, nell’evidenza ma non nella sostanza, è la norma di una condizione esistenziale che per Larraìn è funzionale alla rimozione della ragione, alla separazione tra l’identità e la coscienza. È un po’ come il corpo morto di Salvador Allende disteso sul tavolo autoptico della Storia, ed è giusto in quel senso della El-clubmanipolazione del corpo soggiacente, supino, silenzioso che El club trova la sua drammaturgia, corrisponde alla verità diffusa di una condanna che supera il confine del luogo in cui viene emessa e subita. La colpa stessa e la sua pena hanno un perturbante implicito, che cova dentro e irrompe da fuori: il quinto prelato aggiunto alla casa insiste come una nuova penitenza che turba la convivenza nella colpa, scava da dentro e rimuove la rimozione riattivando la realtà. Tanto quanto le urla di condanna di Sandokan, che insozzano le mura della casa come polluzioni diurne e aggrediscono la trasparenza di quella comunità, e così come l’arrivo apparentemente sanitario del giovane prelato psicologo destinato a instillare una apparente ragione normalizzante.

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La colpa è la manipolazione dell’innocenza, la violazione del perimetro santo della verità: le cronache parlano della pedofilia, le parole salmodianti di Sandokan rendono manifesto lo scandalo, ma allo stesso tempo lo perpetrano nell’opposizione di una verbalizzazione viscerale, fisiologica… La fuga in avanti del cane da corsa è solo il grido silenzioso di una libertà controllata che manifesta il gesto ma non ne vive la verità… Perché poi El club celebra la ritualità prossemica  della contrapposizione di corpi violati, la misurazione della distanza che oppone i segni della colpa dichiarata e quelli dell’innocenza perduta, va chiaramente al di là della questione della pedofilia sacerdotale. Larraìn consolida il suo lavoro sulla convivenza tra il peccato e il peccatore, tra la colpa e l’innocenza, tra la menzogna e la verità. E lo fa in un cinema che raggela la pulsione vitale dell’esistere in una sintomatologia della morte in corpore vili.