Il desiderio dell’oggetto: Queer di Luca Guadagnino a Venezia81

Altro progetto di lungo corso per Luca Guadagnino, il cui cinema desiderante sembra sempre più intento a lavorare la materia seguendo una istintualità primaria, un bisogno di toccare, giocare, amare e anche un po’ manipolare l’oggetto che finalmente riesce ad avere per le mani. Nel caso di Queer si tratta di William Burroughs, della fascinazione adolescenziale per uno scrittore potente nel testo e nell’immaginario, letto quand’era diciassettenne, amato e infine messo in mano allo sceneggiatore Justin Kuritzkes mentre stavano lavorando a Challengers. L’operazione è ambita, il film che ne risulta è la posa in opera plastica di una visione, l’accesso figurativo a una testualità che lo stesso Burroughs aveva lasciato sospesa: “In Queer ho la sensazione di essere stato scritto”, spiegherà nell’introduzione all’edizione del 1985. E l’impressione che si ha dinnanzi al film è che Guadagnino abbia cavalcato proprio questa sensazione burroughsiana, insistendo su quella magnifica forma di gentrificazione dell’immanenza dei corpi e dei luoghi nel testo del suoi film, che rappresenta un po’ la sua linea editoriale.

 

 
In prima istanza, va detto, Queer sembra un film su Città del Messico, o meglio sull’immagine della città che si cristallizza nell’idea del testo: l’ambientazione anni ’40 è una sorta di spazio finzionale e mentale allo stesso tempo, altamente plastico nella ridondante materialità scenografica dei luoghi che risalta nell’attraversamento febbrile del protagonista, Lee. Il corpo sudato, l’eleganza disfatta, il garbo esausto di questo junkie americano lavora di sponda con le strade, i locali, le figure che incrocia: vede il giovane Allerton, coglie la sua alterità, se ne innamora e lo trasforma nell’oggetto di un desiderio quasi dipinto sulle pareti mentali di Lee. La sua ossessione per il ragazzo è il bisogno di fissare la propria attenzione per trovare un soggetto, per individuare un’idea che lo ancori a se stesso, allo specchio del proprio bisogno di essere visto, amato, tenuto. Ma Allerton è un corpo che separa il qui e l’ora, è un po’ come il giovane Fraser di We Are Who We Are, scardina l’identità dalla coscienza, oscilla tra l’accettazione e il disinteresse, tra l’esserci e il rifuggire la presenza. Lasciando Lee solo con la sua solitudine, con l’ossessione di attraversare i luoghi della città in cerca di lui, quasi fosse una sorta di trasfigurazione del Quinlan wellesiano…

 

 
E allora Queer diventa un film sulla ricerca di una connessione intima, sulla smaterializzazione della concretezza plastica del luogo in cui l’incontro si è manifestato: via da Città del Messico verso il Sud. La deriva amazzonica, la ricerca dello yage, la pianta che permette la connessione mentale, è l’orizzonte che si para davanti a Guadagnino per liberare dai luoghi e dai corpi il suo film. Un trip lisergico che unisce sottopelle Lee e Allerton (visione un po’ alla Ken Russell: Donne in amore, Stati di allucinazione…) e scandisce i termini della mutazione. La teoria del divenire è perfettamente coerente con la visione espressa dal regista in tutto il suo cinema, quel perpetuo sospingere i suoi personaggi verso una ricerca di sé che è dispersione, dilapidazione, spiazzamento e rinnovamento. Queer nasce al cinema di Luca Guadagnino come (ennesimo) oggetto del desiderio e arriva a compimento come desiderio di perdersi nell’oggetto. Magari anche perdersi nella performance di Daniel Craig, presenza che ti aspetteresti iconica e che invece è limpida nella sua pulsionalità, quasi un diversivo opposto alla distanza dell’Allerton di Drew Starkey.