Il dolore trattenuto di The Old Oak di Ken Loach

Ne abbiamo conosciuti di registi caparbi, più o meno disperatamente aggrappati alla loro poetica anche quando si dimostrava un po’ stanca, un po’ alle corde, autori cioè che hanno fatto il cinema per mostrare il loro sguardo sul mondo, perseguire con più o meno efficacia il loro pensiero. Ma pochi autori come Ken Loach hanno continuato a lavorare, instancabili, su una linea retta del pensiero, su una affermazione della propria visione del mondo. Di getto qualche nome oltre a quello del regista inglese: Godard, De Oliveira, Fellini, Chabrol, autori che con esiti differenti hanno, come si dice, “girato sempre lo stesso film”. E Loach con i suoi 87 anni continua su questa strada segnando con The Old Oak, titolo quanto mai adatto alla sua matrice umana, un altro segmento di questo complesso edificio che è la sua opera che, ci accorgiamo, va letta come un saggio in capitoli della sua partecipazione politica al mondo. Nella storia di Yara e della sua famiglia di profughi siriani male accolta in un paese del nord dell’Inghilterra, che tanto assomiglia ad un sud del mondo, disperso tra quelli che furono i villaggi minerari di un Paese oggi distrutto e dove solo la solidarietà di TJ Ballantyne e pochi altri riesce a conquistare, progressivamente, il cuore freddo dei suoi diffidenti paesani, ci sono molti momenti che riassumono, quasi simbolicamente, in un cinema che simbolico non è mai stato, il senso di una sconfitta, ma anche la luce lontana di una fiammella di speranza.

 

 

Quando arriva Yara, l’unica tra i profughi che parla un inglese fluido (a proposito perché questo film non gira in originale con sottotitoli in un Paese ormai scolarizzato come il nostro?), un facinoroso le strappa di mano la preziosa macchina fotografica scaraventandola a terra e solo la perseveranza del silenzioso Ballantyne riuscirà con sacrificio a farla riparare. In questa sequenza è forse possibile intravedere il senso di un cinema che fa fatica ormai a ridisegnare i confini di un mondo incattivito. Poiché nulla accade per caso nel cinema, e nulla in quello di Loach, la distruzione di un dispositivo di informazione e cronaca, di creatività e informazione vuol dire qualcosa di diverso, piuttosto che solo il senso di rabbia repressa per l’atto violento esercitato su una persona indifesa. C’è forse un sentimento di inutile fatica dello stesso autore in questa ostinata sua perseveranza. In quella sequenza sembra chiedersi se il suo cinema sia servito a qualcosa, compreso questo film, o sia meglio smettere, distruggendo il mezzo e abbandonando ogni ipotesi di speranza. Il mondo violento e ottuso, incapace a cogliere le opportunità di rivitalizzazione dei luoghi e che piuttosto si accontenta della lenta morte di una comunità pur di difendere una purezza di discendenza che non serve a salvare le vite né quelle proprie, né quelle dell’intero villaggio, sembra avere vinto la partita. Una vicenda dunque, quella del paziente Ballantyne, non troppo dissimile da quella di chi, anche dalle nostre parti, come Mimmo Lucano ad esempio, in un altro sud desertificato e lontano da ogni reale benessere esistenziale, ha provato fra mille ostacoli a restituire vita a paesi abbandonati con l’innesto proficuo di culture e pensieri anche lontani, integrando le differenze ed esaltando la diversità. Ecco perché il cinema di Loach è un nervo sottile e sensibile e sempre – non solo in questo film – politicamente esposto, ma anche perché immediatamente riconoscibile come traccia di un pensiero comune che sembra segnare, con venature cromatiche identiche, pensieri solo geograficamente lontani, in una specie di internazionale della solidarietà che non smette, nonostante tutto, di essere viva, come è vivo quel cinema che da Ballantyne a Daniel Black, a Joe di My name is Joe, attraversa i nostri occhi raggiungendo il cuore in un solo istante.

 

 

Seconda sequenza carica di un invisibile simbolismo. La spiaggia di TJ Ballantyne, sulle coste di un’Isola votata alla conquista di altri mari, è un luogo di confine dell’immaginazione e al tempo stesso della disperazione per TJ. Il luogo dove il sempre più silenzioso Ballantyne vuole farla finita o dove va a raccogliere le forze, luogo del mito e della solitudine. Ogni volta che Ballantyne torna su quella spiaggia si ripete la magia di un ritorno alla vita nonostante il dolore. La prima volta è per l’arrivo della buffa cagnolina Marra che finirà i suoi giorni sotto le grinfie dei più potenti e spietati suoi fratelli. Tornano in mente le parole di De Lamartine citate in Dogman da Besson, Ovunque ci sia un infelice, Dio invia un cane ed è quello che accade a Ballantyne. Quando TJ tornerà per la seconda volta su quella spiaggia sperduta, che sembra uscita dalla memoria di Lost, per la seconda volta saprà della morte del padre di Yara, un evento tragico dal quale però sembra germogliare una nuova esistenza. Loach con sapienza, in questo film dimesso e mai enfatico, vivo, ma anche con un senso di sottile angoscia in una visione che vive – forse per la prima volta con questa intensità – nel delicato equilibrio tra ottimismo e pessimismo, sa toccare il cuore, sa attraversare con la sua sapienza da ottuagenario lo scivoloso terreno di un dolore trattenuto, di una speranza mai morta, anche se gravemente ferita, quella che si è fatta vera In questo mondo libero della sua visione politica, ma affatto irreale, anzi immanente e contemporaneo nel quale continuiamo, malgrado l’infelicità che ci circonda, a vivere.

 

 

Nel suo penultimo film Sorry we missed you, forse il più pessimista mai girato, il cinema di Loach sembrava essere arrivato, dolorosamente, ad una fine disperata. In quelle parole che Ricky pronuncia nel finale di quel film, svincolandosi dalla moglie e dal figlio urlando che deve andare al lavoro, nonostante le ferite e il viso tumefatto, sembrava davvero che Loach avesse messo una pietra tombale su ogni speranza di futuro, sembrava dire: ci ho provato, ma il mio lavoro da Poor cow a questo film non ha dato i suoi frutti. Ma la lunga vita artistica del regista inglese ci ha ancora riservato questo The Old Oak e la vecchia quercia sembra essere tornata a vivere attraverso la quotidiana lotta politica come quella dei suoi numerosi personaggi che rinascono da ceneri di povertà: madri sole accerchiate dagli assistenti sociali, lavoratori disperati che devono comprare un vestito per la comunione della figlia, donne in carriera già sfruttate che, imparata la lezione diventano sfruttatrici. In questo mondo solo apparentemente libero, ma in realtà legato dalla negazione di ogni solidarietà, nella deregulation più assoluta, in quella umiliazione dei diritti e in quella eterna guerra fra poveri, il cinema di Loach, ancora una volta, diventa un’oasi di piccola felicità dove ritrovarsi sempre in compagnia di amici come in un pub dalle porte aperte e con una birra sempre fresca.