Che non sarebbe stato un semplice ritorno alle atmosfere dell’originale L’Uomo Lupo Universal era facilmente prevedibile: perché prima di Wolf Man c’era stato L’Uomo Invisibile, che aveva chiarito subito come a Leigh Whannell non interessasse il semplice confronto dialettico con i più ingombranti precursori. Eppure, nell’offrire una personale idea di una creatura così iconica, il regista americano tara l’intero racconto sull’idea di un ritorno all’origine, attraverso un raffronto continuo con le figure paterne. Lo dimostra il protagonista, Blake, che conosciamo figlio di un genitore mascolinamente protettivo e pronto a trasmettergli, fucile alla mano, i modi per difendersi dalle minacce in agguato nei boschi. Un modello da cui lui tenta di distanziarsi, perché forse espressione di patriarcato tossico (lo stesso in cui sguazzava il già citato Uomo Invisibile, tanto per dimostrare coerenza autoriale), creandosi una nuova vita e famiglia in città. Lo ritroviamo perciò, trent’anni dopo, padre attento e premuroso nel voler tenere a sé moglie e figlia, comprendendone sì le esigenze, ma spingendole a un weekend “di ritorno” alla casa di famiglia, che lui ha appena ereditato dopo la morte del padre.
Le minacce dei boschi sono però in agguato e costringeranno suo malgrado Blake, preda della malattia che trasforma le persone in lupi mannari, a scavare una distanza con una famiglia che non sente più sua e da cui non è pure riconosciuto. In questo, dichiaratamente, Whannell fa appello alle dinamiche sia degli anni pandemici che delle malattie degenerative, trasformando la licantropia non tanto in un’espressione dell’umana bestialità, quanto in una metafora di ciò che crea isolamento e distanza fra le persone altrimenti più vicine. Del gruppo familiare cerca di abbracciare i vari punti di vista attraverso una circolarità che non è solo narrativa (l’inizio e il finale sono rispecchiati e complementari), ma anche visiva, con l’occhio della macchina da presa che ruota attorno ai personaggi descrivendone gli stati emotivi ora di uno, ora dell’altro. È una costruzione visiva e percettiva (il modo in cui cambiano suoni e colori) che fa da contraltare a un racconto affrontato per sottrazione: tutta la consueta mitologia legata all’Uomo Lupo è assente, manca il classico momento in cui qualcuno (magari uno zingaro) la enuncia, non c’è l’argento introdotto dalla storia che Curt Siodmak scrisse per il film del 1941, niente pentacoli e nemmeno una creatura visivamente impressionante. E di questa “nuova” versione non vengono scritte dettagliate origini, che restano ignote se non per un vago richiamo ai nativi americani, come a dire ai padri (di nuovo) d’America nonché dello stesso filone mannaro (The Werewolf del 1913, per inciso, è il primo titolo ad affrontare il tema e pesca la maledizione fra i navajos). Al contrario, tutto è articolato sulla dialettica dei punti di vista. Sia perché Whannell si muove fra le varie prospettive, ma anche perché tutta la storia è giocata su un perenne effetto vedo/non vedo, lavorando in modo millimetrico sulla linea di confine tra il buio e le poche fonti di luce.
In questo certamente l’operazione assume una lucidità evidente, che testimonia un modo fecondo di affrontare vicende altrimenti già viste e spesso appiattite sulla ripetizione dei cliché. E certamente Whannell è coraggioso nell’asciugare il più possibile dagli orpelli una figura altrimenti molto sovrastrutturata come quella del Wolf Man, di fatto traslandolo in un Man Wolf. Un’operazione che certamente promette parecchio, ma che per questo richiede altrettanto, mentre la narrazione si snoda poi per meccanismi più prevedibili, nella classica dinamica di un assedio che è dentro e fuori la casa, come è dentro e fuori il corpo. E alla fine di questo Uomo Lupo così poco iconografico non resta poi troppo. Anche perché in fondo – e non è l’aspetto che più si ricorda – anche il primo L’Uomo Lupo Universal era un racconto di confronto con la figura del padre, così come fu veicolo per un figlio (Lon Chaney) per affrancarsi dall’ombra di un pure ingombrante predecessore. Ragion per cui l’elemento di novità reale va forse cercato ancora una volta nel punto di vista ribaltato. In virtù del quale, forse questa non è (soltanto) la storia di un uomo alle prese con la circolarità del rapporto paterno, ma quello di una donna (sua moglie Charlotte) che deve farsi carico di una vita senza l’elemento maschile e abbracciare definitivamente quel ruolo di madre che fino a quel momento aveva evitato. Sta allo spettatore scegliere se questa lettura è feconda (oltre che coerente con i temi del più volte citato Uomo Invisibile) oppure se è resa possibile soltanto dall’indecisione generale in cui la trama più volte dimostra di galleggiare.