Il ragazzo invisibile… dal kimono d’oro: generazioni a confronto

Giunta al secondo capitolo, la saga del giovane supereroe di Gabriele Salvatores crea una sempre maggiore risonanza con quella di un altro ragazzo del cinema italiano, quello dal kimono d’oro di Larry Ludlum/Fabrizio De Angelis. Sia scritto in senso assolutamente non diminutivo: in entrambi i casi a spiccare è infatti il tentativo di confronto con un’iconografia altra, proveniente da un differente contesto e cultura, che finisce per generare un naturale spiazzamento della visione. Sono cambiate epoca e contesto produttivo, con Il ragazzo invisibile che ha l’ambizione di porsi quale apripista di nuove possibilità narrative e con un’organizzazione produttiva attenta a creare un prodotto transmediale, accompagnato da libro e fumetto collegato; ma al fondo resta l’idea di un eroe giovane di cui seguiamo l’evoluzione nel corso di più pellicole, ogni volta aggiungendo elementi e personaggi di contorno che arricchiscono l’universo narrativo, prima ancora che il personaggio in sé. In effetti, stante l’invisibilità quale caratteristica precipua del supereroe triestino, la sensazione è ancora quella di un mondo composito che non si riflette in un protagonista suo malgrado riluttante, il cui potere anziché essere attivo finisce per rispecchiare quasi una volontà di defilarsi e un senso di disagio tipicamente adolescenziale. Ragion per cui ogni volta è l’elemento aggiunto a fare da collante narrativo: il potere, sia esso quello di scagliare il Colpo del Drago o quello di generare un altrettanto inarrestabile campo di forza. Il tutto allestito su una non epoca che è perfettamente addentro al qui ed ora produttivo (gli anni Ottanta per Ludlum, i Duemiladieci per Salvatores), ma che nel far propria l’iconografia ripresa da tradizioni altrui genera uno sfasamento temporale: aspetto che Salvatores amplifica attraverso una serie di rimandi incrociati fra nazionalità e iconografie.

 

Un po’ X-Men syngeriani, un po’ supereroi da Golden Age in un contesto da Guerra Fredda, gli Speciali di Salvatores appaiono quindi icone fluttuanti come l’effetto di sparizione/apparizione di Michele, che è fulcro ma non baricentro della vicenda. Qui si crea l’autentico scarto con l’eroe di Kim Rossi Stuart, abbastanza definito nella sua bellezza esteriore, cui fa da contraltare un parterre di personaggi iconograficamente sbozzati, quasi acerbi, come parti di un percorso che vuole compiersi nel tempo e nelle continue evoluzioni delle generazioni, quali la trama stessa sottolinea nel suo progressivo approdo alla perfezione del potere. Salvatores può in questo caso continuare a esplorare il mondo da un punto di vista bambino, come già in Io non ho paura, mentre rivisita in modo personale l’iconografia fantastica (come in Nirvana): deve però lavorare con maggiore incisività sullo slittamento fra la confusione dei personaggi e l’incertezza dei ritmi, dettati da una recitazione approssimativa, sopra le righe come in un fumetto, ma che non sembra tenere conto che il cinema abbisogna di approcci meno letterali, più liberi e incisivi, senza delegare al montaggio la fatica di tenere il tutto a bada. Se il nuovo capitolo alza comunque la posta in gioco, amplificando le sovrapposizioni temporali attraverso una continua serie di andirivieni tra presente e passato, che si sposano con i ribaltamenti narrativi portati dai colpi di scena, è un peccato che sia andato perso il lavoro sugli esterni friulani. Non più un interessante contrasto fra quel senso quasi alieno di ordine tipico del Nord-Est italiano, e l’anomalia di una generazione di giovani eroi problematici, ma un ripiegamento su interni che sembrano costringere l’ariosità del progetto nelle dinamiche di un cinema italiano più intimo e sin troppo sfruttato. Sì che Salvatores dà il meglio di sé proprio in esterni, come dimostra l’elaborazione dei passaggi nei già citati Io non ho paura e Nirvana, senza dimenticare Turné e Mediterraneo, ragion per cui la nuova scelta appare quasi limitativa e ci dice di un approccio registicamente più frenato, forse perché troppo confidente nelle svolte impresse dalla scrittura. Ecco, in questo senso Il ragazzo invisibile – Seconda generazione manca di una qualità che era propria de Il ragazzo dal kimono d’oro: la sfacciataggine di lasciarsi alle spalle qualsivoglia preoccupazione circa i possibili confronti con i modelli o eventuali spiazzamenti del pubblico. Che poi è in generale quanto manca a molto cinema italiano moderno che voglia dirsi adatto a un’audience, quella sì, comunque transgenerazionale.