Continua il personale percorso di emancipazione femminile legato a figure realmente esistite o fittizie a cui Martin Provost si è dedicato in tutti i suoi film. Dopo Où va la nuit (2011, storia di una donna che decide di prendere in mano il suo destino e uccide il marito), Séraphine (2013, sulla pittrice Séraphine de Senlis e i misteri della creazione artistica), Violette (2014, sulla scrittrice Violette Leduc e l’incontro fondamentale con Simone de Beauvoir), Quello che so di lei (Sage femme, 2017, sul rapporto tra un’ostetrica e la donna per cui il padre ha lasciato la famiglia). Ora La brava moglie (La bonne épouse, 2020), ambientato a fine anni 60 quando il maggio 68 si avvicinava e la rivoluzione era nell’aria, ma ancora le donne venivano cresciute per diventare madri e mogli perfette. Solo poco tempo prima, nel 1965, le donne avevano ottenuto il diritto di esercitare un’attività professionale o di aprire un conto in banca senza l’autorizzazione del marito. Il territorio francese contava all’epoca su più di mille scuole destinate soprattutto alle classi meno abbienti per imparare i rudimenti della moglie perfetta. In una di queste situata a Boersch, in Alsazia, la direttrice Paulette Van Der Beck (Juliette Binoche) si appresta ad accogliere le nuove alunne. Rispetto all’anno precedente si registra una flessione: «Abbiamo 15 alunne in meno» comunica con qualche preoccupazione la direttrice al marito Robert (François Berléand), alla cognata Gilberte (Yolande Moreau) e a suor Marie-Thérèse (Noémie Lvovsky), preoccupata perché tra le ragazze c’è una rossa di capelli e non è di buon auspicio. Le tre donne insegnano economia domestica, cucina, ricamo, giardinaggio, igiene personale, come soddisfare il marito sulla base di sette pilastri fondamentali per la perfetta casalinga.
Quando Robert muore improvvisamente, Paulette scopre che la scuola è sull’orlo del fallimento visto che l’uomo ha contratto molti debiti giocando ai cavalli. Dovendo ricorrere alla banca per un prestito, ritrova il suo grande amore André (Édouard Baer), atteso a lungo invano e riscopre le gioie del sesso e prende consapevolezza dell’importanza della libertà per una donna. Complice la selezione dell’istituto da lei diretto a rappresentare la Francia al Salone di Parigi, proprio nei giorni delle rivolte studentesche del maggio 68 («Anche noi faremo la rivoluzione»), i sette pilastri iniziali di sottomissione trovano il loro naturale ribaltamento nella proclamazione di sette pilastri di parità. Fin dall’incipit il film denuncia la sua vera natura di messinscena: Provost insiste su inquadrature di finestre con tende e tapparelle che vengono tirate, quasi si trattasse di un sipario. Allo stesso modo le tre protagoniste vengono riprese davanti al mobile di toeletta intente a pettinarsi, cospargersi di lacca e di profumo per andare in scena. La finzione è quella che mettono in atto ogni giorno, poco convinte loro stesse (Paulette alle pressanti richieste del marito di un rapporto sessuale, accondiscende purché faccia in fretta) di quello che cercano di inculcare nelle giovani studentesse. Si tratta di donne che, ovviamente, sono state iscritte dai genitori: c’è la ragazza di umili origini, quella sacrificata a beneficio del fratello che continua gli studi in quanto maschio, la ribelle omosessuale, la sottomessa al padre… Tutte tipologie ben note, e tutte più o meno scettiche e poco collaborative con le richieste di famiglie e insegnanti e che si ritroveranno in sintonia con queste ultime solo nel finale liberatorio in forma di musical. Un’emancipazione che passa anche dall’abbigliamento, segnatamente i capi indossati dalla direttrice che dal castigato tailleur rosa confetto arriverà a trovarsi perfettamente a suo agio nei pantaloni che la valorizzano quando prende coscienza della sua libertà.