Il ragazzino col casco da astronauta che cammina tra papà e mamma rimanderebbe a un’idea di isolamento e separazione dal mondo, ma Wonder è piuttosto un film in cui la costruzione della felicità passa attraverso l’edificazione del rapporto con gli altri. Il vuoto siderale evocato dal costume scelto dal piccolo August – 13 anni, il volto deforme avuto in sorte alla nascita (Sindrome di Treacher Collins, si dice in termini medici) parzialmente ricostruito con la plastica facciale – è in realtà l’atmosfera che gli permette di stare nel mondo senza essere notato, evitando gli sguardi spaventati degli altri bambini e dei loro genitori. L’istinto comune a rifuggire dalla sua presenza è l’imprinting della relazione cui il ragazzino è abituato: c’era cascata la scrittrice R.J. Palacio, prima di farne l’ispirazione per il suo libro, quando in una gelateria era andata via all’arrivo di un bimbo con quella malformazione. E c’è cascato in un primo momento anche il regista Stephen Chbosky, al quale quel libro in cerca d’autore cinematografico era stato messo in mano, in ragione del successo della versione live action de La bella e la Bestia da lui scritta e in considerazione dell’esito tutt’altro che trascurabile di Noi siamo infinito, la sua opera seconda, che sulla dinamica inclusione/esclusione post-traumatica nei drammi adolescenziali aveva detto qualcosa di piuttosto interessante.
Fatto sta che August sta lì, tra pagina e schermo, sospeso sull’eccezionalità della sua presenza al mondo, tra accettazione e rifiuto: è arrivato il momento di andare a scuola, niente più casco da astronauta, i suoi genitori sono coraggiosamente più spaventati di lui che è paurosamente rassegnato a subire battute, sguardi obliqui, domande stupide, nel migliore dei casi commiserazione. La materia è ovviamente ad alto tasso di pathos, per giunta originata da un caso letterario – il che, per un film, rappresenta sempre un ulteriore rischio d’omologazione verso la bassa medietà. Ma Stephen Chbosky ha saputo tenere Wonder nei binari di una narrazione che fa del piccolo August la rosa dei venti che orienta le correnti emotive delle persone che gli stanno attorno: la madre accorata e lucida e il padre sobriamente sensibile (Julia Roberts e Owen Wilson, efficacemente a latere di un film che Chbosky, in linea con la sua poetica, preferisce tenere più focalizzato sulle età giovani), la sorella maggiore Via, il compagno di classe Jacke…Non siamo ai livelli di articolazione di Noi siamo infinito, ma anche in Wonder Stephen Chbosky sa tenere il giusto ritmo nel rapporto tra la focalizzazione soggettiva del suo giovane eroe, destinato a portare le cicatrici di un’infanzia segnata dal dolore nell’inevitabile confronto con il mondo, e la costruzione attorno a lui di un universo di relazioni in grado di definire una sorta di temperie emotiva capace di contenerne l’alterità, le fughe prospettiche nell’eccezionalità del suo sentire. Rispetto a Noi siamo infinito, che elaborava la tridimensionalità del suo protagonista partendo dalla sua condizione di invisibilità, dal suo essere “tappezzeria” (The Perks of Being a Wallflowers recitava il titolo originale), Wonder individua la pienezza del suo piccolo eroe, la sua vera natura meravigliosa, nella conquista di una invisibilità agli occhi degli altri. E ancora una volta Chbosky trova la giusta dinamica drammaturgica nella costruzione di una quiete relazionale tra le figure in atto, basata sul rapporto di sincerità, immediatezza e gentilezza, ovvero sulla capacità di superare la mera empatia grazie alla comprensione del ruolo dell’altro sulla scena dell’esistere. Peccato che poi il film non giochi bene tutte le sue carte, soprattutto mostra qualche falla nella gestione complessiva della scena, lasciando alcuni personaggi pure molto interessanti un po’ fuori quadro, sospesi su accenni che non trovano poi definizione. Uno per tutti: Miranda, l’amica di Via, che potenzialmente offrirebbe uno specchio esterno in cui riflettere l’intera famiglia di August, dando ad essa una definizione complessiva capace di superare la scansione in capitoli focalizzati su ognuno dei personaggi, ereditata dalla struttura del libro. E questo per un film che cerca la catarsi dell’eroe proprio nella conquista di una coralità in cui inserirsi è un danno tutto sommato non troppo collaterale.