Oltre vent’anni sono passati, ma le scimmie non hanno smesso di abitare il nostro mondo e rifletterne le contraddizioni: il riferimento non è alla saga planetaria inaugurata da Charlton Heston, ma al film Scimmie come noi, secondo lungometraggio animato di Jean-François Laguionie del 1999 in cui si introduceva lo spettatore a un mondo di scimmie antropomorfe e al personaggio del Principe che vive nella terra al di là del mare, protagonista ora di questo sequel (pensato comunque per essere abbastanza autonomo rispetto al prototipo). Dopo aver attraversato finalmente la distesa d’acqua, il Principe si ritrova in una terra “razionalizzata” da un uso metodico della scienza, che per questo si crede il centro dell’universo e non può così accettare l’anomalia dello “straniero” di un altro mondo. Pertanto il principe viene tenuto in custodia e considerato alla stregua di un fenomeno da baraccone, e l’unica possibilità di salvezza gli verrà garantita dall’amicizia con il giovane Tom. La contrapposizione tra i due mondi si consuma sullo sfasamento percettivo donato dalla rivisitazione in chiave antropomorfa di una specie animale e dal peculiare confronto linguistico che porta i pensieri del principe (espressi in voce fuori campo) ad articolarsi nella lingua dello spettatore, mentre le conversazioni fra lo stesso e gli altri personaggi avvengono nella lingua della terra d’oltreoceano.
Già in questa scelta abbastanza bizzarra di mescolare i livelli narrativi, si evidenzia come a Laguionie interessi proprio esprimere il valore superfluo della logica in favore della meraviglia e della curiosità. È proprio una simile qualità, infatti, ad aver spinto il principe a non accontentarsi delle gioie della terra d’origine per esplorare il mondo e sempre per curiosità Tom stringerà con lui un’amicizia molto salda. Lo scontro con la civiltà “razionalista”, non a caso, assumerà i contorni di una contrapposizione netta fra una cultura a metà tra afflato rinascimentale e usanze semplici (da reame incantato de Le mille e una notte) e una società più severa di tipo illuminista e tardo ottocentesco. La terza via, forse una sintesi possibile è data dal mondo della natura, con le piante che premono ai margini della città per stritolare quei palazzi eretti con la sicumera dai dominatori della ragione e che diventano a loro volta emblema di una paura recondita su cui la stessa società si fonda. È per paura, infatti, che i razionalisti ostentano le loro certezze e respingono ipotesi che mettano in discussione lo status quo e grazie a essa hanno organizzato la società in rituali perfettamente preordinati (ivi incluso la festa in maschera che di notte celebra e esorcizza proprio i timori più atavici).
L’approdo finale e non casuale è a una società di stampo più primitivo e tribale che – in una bella invenzione dal sapore quasi miyazakiano – vive sulla cima degli alberi, in perfetta integrazione con la natura e nella precarietà degli equilibri che dimostrano la possibilità di una convivenza pacifica con le paure. Dall’alto della sua esperienza, Laguionie racconta queste contrapposizioni con uno spirito tutto sommato rasserenato, che dona al film una progressione ben cadenzata e mai in affanno, dai contorni per l’appunto fiabeschi e in grado di porre le proprie argomentazioni filosofiche e politiche con garbo d’altri tempi. Lo stile di disegno è pulito e anche più rifinito rispetto alle spigolosità del prequel, con cromatismi lievi e tipici della scuola francofona della linea chiara, che in questo modo tende a rendere più organico lo scarto fra la fisicità animale dei volti scimmieschi e i loro comportamenti “umani”, diminuendo lo straniamento in favore di una raffigurazione pacificata del mondo. Forse anche troppo: l’impressione è infatti quella di un racconto un po’ troppo ripulito, complice anche l’animazione in cel shading che deprime in parte la concretezza delle figure. È un film insomma, che appare in un perenne stato di galleggiamento, scelta che per molti aspetti può esaltarne il valore fieramente inattuale rispetto a tanta scena contemporanea, ma che ne sottolinea pure la natura un po’ desueta, anche quando lo si guarda comunque con rispetto.