La guerra del racconto: 1917 di Sam Mendes

1917 come Dunkirk: il racconto di una missione durante i due grandi conflitti mondiali dello scorso secolo, ma anche l’occasione per rivoluzionare gli elementi spazio temporali del film bellico classicamente inteso. Materia ideale per Sam Mendes, che in quasi ogni sua pellicola innesca dialettiche profonde con modelli altrui e che già in passato aveva guardato al cinema del collega Christopher Nolan. Skyfall, infatti, si ispirava dichiaratamente al Cavaliere oscuro, ne assumeva la densità espressiva e la cupezza dei registri sullo sfondo di una stilizzazione molto chiaroscurale, quasi gotica, dello spazio metropolitano. Qui siamo al passaggio successivo e il rifarsi presuppone una posizione dialettica ancora più marcata: Nolan scompone e mescola i piani attraverso il montaggio, Mendes ricompone l’unità temporale attraverso l’uso del piano sequenza. Nolan stabilisce la centralità del luogo (Dunkirk) mediante un lavoro sugli spazi che esalta la dimensione verticale (il cadere costante delle bombe) e la fissità dei suoi molti eroi, costretti in un’area delimitata (la spiaggia della costa francese); Mendes si focalizza sul tempo (1917) e lavora su uno spazio esplorato da singoli uomini in orizzontale, lungo una missione che contempla l’attraversamento di chilometri di terra di nessuno, alzando poco lo sguardo, ponendosi letteralmente “in trincea”.

 

C’è poi un altro elemento, più personale, che rimarca ancor più la dicotomia fra i due titoli: Nolan rievoca un fatto storico molto circostanziato (l’Operazione Dynamo), mentre Mendes si rifà ai racconti del nonno Alfred Hubert Mendes, creando una vicenda di finzione, pur all’interno di un contesto storico ben definito (l’aprile del 1917 quando l’esercito tedesco ripiega presso la linea Hindenburg in Francia). Nell’allestimento tecnico del suo film che sfida gli elementi classici della messinscena bellica, Mendes instilla quindi coordinate familiari, che legano 1917 alle vicende dei protagonisti di Revolutionary Road, Era mio padre o American Beauty. Il dramma storico si lega a doppio filo all’elemento parentale, la missione del soldato Blake per fermare l’attacco-trappola è strettamente intrecciata al salvataggio del fratello che guiderà la carica. Come sempre nel cinema del regista britannico, la famiglia ha una funzione ambivalente, è l’elemento scatenante del dramma, ma anche un fardello dal quale non si può prescindere, la cui forza propulsiva finisce anche per travalicare il singolo. Si pensi in tal senso all’abnegazione con cui William Schofield, unico superstite, cerca di portare a termine il compito dopo aver ereditato dal compagno caduto, il già citato Tom Blake, il compito di informare il fratello della sua sorte.

 

L’aspetto vincente di 1917 è proprio il modo in cui Mendes, nella fissità tecnica data dal piano sequenza che impedisce di “staccare”, riesce a far risonare proprio l’immediatezza e l’urgenza storica e personale che agita i suoi protagonisti. Mentre il film costringe lo spettatore a non recedere dall’avanzamento in orizzontale, l’autore apre squarci di ulteriori coordinate che agitano il racconto, come le ombre che tagliano trasversalmente il quadro nella splendida sequenza della città. Il film storico si fa così storia di fantasmi, cede anche colpevolmente alle logiche dell’azione fuori dal realismo (l’eccessivo crescendo con la caduta dalla cascata), perché consapevole di essere già oltre il concreto e nell’area dell’astrazione. Da film di guerra a film fantastico il tempo non molla la presa, ma apre a innesti più porosi e in grado di creare ulteriori risonanze cinefile: se l’attraversamento delle trincee non può non rievocare gli Orizzonti di gloria kubrickiani, la già menzionata parte nella città si rivela un’autentica propaggine del lavoro già compiuto in Skyfall sul corpo di palazzi e vie in cui si snoda l’azione. Aggiungiamo anche il bell’intreccio di intenzioni fordiane nella scena del canto del soldato che anticipa la battaglia, accompagnata da una intensa carrellata circolare che sembra uscita dal Peter Jackson della saga degli Anelli e il risultato è un film continuamente dentro e fuori sé stesso. Capace perciò di mantenere la tensione, innescare dialettiche con i modelli e esibire la sua tecnica mentre porta avanti un discorso più personale.