L’innocenza del male, fin dal sottotitolo italiano dell’esordio di February, è ancora il territorio prediletto per le ricognizioni horror di Osgood “Oz” Perkins: che sono ossessive, hanno una portata quasi “cosmica” nel modo in cui avviluppano e schiacciano le loro protagoniste, ma sono poi “piccole”, intime, complice il confinamento in spazi sempre ristretti: la scuola nel già citato February, la casa nel bosco in Gretel & Hansel. La trasposizione della fiaba resa celebre dai fratelli Grimm sfugge infatti alle rivisitazioni young adult delle recenti e similari operazioni, per diventare un ideale e ulteriore tassello del Perkins-universo, ne ripropone le ossessioni con precisione e si va a inserire piuttosto nel più recente filone da fantastico d’essai, che vede annessi nomi come Ari Aster, Robert Eggers e, al di fuori del genere, Alex Garland fino all’estremo di un Nicolas Winding Refn. Sono titoli che prendono sul serio le loro fobie, e propendono per un approccio molto ricercato nella composizione di ogni inquadratura, per spingere agli estremi la portata visiva e visionaria delle loro storie, calcando la mano su sonorità elettroniche, un ritmo lento e un’atmosfera opprimente, qui esaltata al massimo dalle tinte fiabesche e dall’uso esasperato del grandangolo, che schiaccia e al contempo confina nel vuoto i personaggi.
La struttura di per sé diventa così una traccia, sorretta dall’andamento che già conosciamo grazie alla fiaba, con i due fratelli che si perdono nel bosco e finiscono nelle grinfie della strega, che non vive nella casetta di marzapane, ma in un’affascinante magione dal taglio esoterico, dove ricorre spesso il motivo del triangolo, altro elemento che unisce solidità geometrica ad aperture nell’ignoto. Ugualmente la donna offre pasti abbondanti, con dolci e prelibatezze per i due avventori, e cerca di cooptare Gretel, la maggiore dei due, per portarla verso le forze oscure. La ragazza è così pure lei una personalità divisa, scissa fra l’amore verso il fratello e la fascinazione per l’oscurità che potrebbe salvarla dalla violenza maschile che sembra governare il mondo. Tutto il film celebra pertanto l’ambiguità e la doppiezza di un mondo dove i ruoli sembrano ben definiti, ma in cui è necessario trovare una narrazione propria, in ossequio a quanto fa lo stesso Perkins nell’adattare un copione altrui e nel realizzare una trasposizione che deve essere parte della sua personale ricognizione nel mondo-cinema: il sapore di queste sue storie è infatti quello di una personalità curiosa, ma inquieta, capace di osservare ma che si pone domande e in ragione di ciò riesce a creare interessanti ponti con altre opere e suggestioni. Così, dal racconto d’epoca alla fiaba, il film si lascia penetrare da sottili allusioni ad altre possibilità, da umori alla Jodorowski fino alle tensioni evocate dal cast che sta fra la sovrastrutturazione richiamata da Sophia Lillis (che rimanda ovviamente a It) e la femminilità inquieta di Alice Krige, con un finale che sembra una parafrasi di quello di Silent Hill (senza dimenticare anche i tanti ed efficaci trascorsi dell’attrice nel fantastico). Il film può essere così inquadrato da due differenti prospettive: quella della fiaba che oppone l’innocenza dell’infanzia alla violenza degli adulti. Ma anche quella della femminilità che si confronta con le sue stagioni e i suoi ruoli: sorella, figlia, madre, preda e reietta, una e molteplice per cantare la meraviglia e l’orrore del mondo.