La terra dei figli di Claudio Cupellini, da Gipi, storia di formazione e sopravvivenza dopo la fine della civiltà

«Sulle cause e i motivi che portarono alla Fine si sarebbero potuti scrivere interi capitoli nei libri di storia. Ma dopo la Fine nessun libro venne scritto più». Comincia con queste parole La terra dei figli, il film diretto da Claudio Cupellini e tratto dall’omonimo graphic novel di Gipi (che aveva lo stesso incipit). E tutto ruota proprio attorno a un libro, o per meglio dire un diario, quello che il Padre (Paolo Pierobon) scrive di nascosto dal Figlio (Leon De La Vallée). In un mondo in cui «le carezze non servono più a niente» e la violenza regola i rapporti tra le persone («ti manca il bastone?» chiede il padre al figlio che lo sta spiando) non c’è posto per nessuna forma di affetto né tantomeno di pietà se si vuole sopravvivere. Non ci si può fidare di nessuno, certo non delle persone con cui si cerca di scambiare una pelle di cane per del pesce. L’unico personaggio positivo e accogliente sembra essere la Strega (Valeria Golino), ormai cieca e dai capelli vagamente turchini che veglia su tutti – essendo l’addetta alla chiusa che isola il lago dal mondo di fuori ancora più spietato -, e che, nella narrazione senza concessioni del Padre è diventata il personaggio cattivo delle fiabe e non la Fata che ci si aspetterebbe. Per evitare ogni forma di vicinanza i personaggi sono ridotti alla loro funzione o hanno nomi improbabili come Aringo (Fabrizio Ferracane), una sorta di Mazzarò del luogo. Quando il Padre muore il Figlio, che non sa leggere, decide di affrontare il mondo di fuori per trovare qualcuno che possa decifrare le parole scritte dal Padre. In un mondo in cui le apparenze ingannano, si imbatte dapprima in due orchi (Maurizio Donadoni e Franco Ravera) e poi nel Boia (Valerio Mastandrea), e soprattutto conosce e salva Maria (Maria Roveran), una coetanea con cui forse un nuovo mondo è possibile. Un racconto di formazione che inizia in medias res: non sappiamo cosa sia successo per trasformare il mondo, tutto fa pensare a una catastrofe ecologica («Quelli nati dopo i veleni non hanno rispetto», dice Aringo), anche se vederlo dopo la pandemia fa un certo effetto. In ogni caso c’è un “prima” di cui il giovane protagonista non conosce nulla, non avendone memoria diretta, né alcun racconto che possa supplire: così il Padre, in una forma estrema di amore, lo ha protetto quando ha deciso di risparmiarlo e di non affogarlo (come invece ha fatto la maggior parte dei genitori per evitare ai figli dolore e sofferenza). Il rapporto padre-figli è centrale in tutto il film, non solo per quanto riguarda il protagonista, ma anche per Maria e soprattutto per il Boia che subisce una trasformazione proprio ripensando al passato e a quello che avrebbe potuto essere ma non è stato: in qualche maniera è lui il corrispettivo del Padre, l’altra faccia della medaglia, in quanto depositario di una memoria che non può più occultare. 

 

 

Cupellini – anche autore della sceneggiatura con Guido Iuculano e Filippo Gravino, affronta il genere post apocalittico come la più classica delle fiabe, una fiaba decisamente dark in cui non c’è possibilità di appiglio o di consolazione (nel graphic novel di Gipi i figli sono due e il minore, il protagonista, si chiama Lino, qui il Figlio non ha nemmeno diritto a un nome) che mette al centro un novello Pinocchio cresciuto come un pezzo di legno che, una volta rimasto solo, si fa delle domande e soprattutto cerca delle risposte. Di grande potenza visiva l’ambientazione acquatica (il film è stato girato sul delta del Po, nel ferrarese, nella laguna di Chioggia, nel Polesine), così come molto incisivi sono tutti gli attori. La terra dei figli ha il coraggio di affrontare un genere poco frequentato dal cinema italiano omaggiando in maniera intelligente numerosi titoli, da Waterworld di Kevin Costner a The Road di John Hillcoat, da Pitch Black di David Twohy a Minority Report di Steven Spielberg (l’iconografia di Maria ricorda rispettivamente Jack e Agatha). Notevole anche la colonna sonora realizzata da Motta, alla sua prima esperienza nel cinema.