Le guerre indiane del West sono tutte le guerre: le ambiziose metafore di Scott Cooper in Hostiles

In termini di estetica cinematografica, i film diretti da Scott Cooper offrono sempre parecchio. A maggior ragione quando sono riusciti, come nel caso di Out Of Furnace – Il fuoco della vendetta (2013), ma anche quando lo sono meno (come Crazy Heart nel 2009, a prescindere dai due meritati Oscar vinti da Jeff Bridges e dalla canzone di Ryan Bingham, The Weary Kind) o non lo sono per nulla (Black Mass, del 2015). Succede anche in Hostiles – Ostili, che è senz’altro un lavoro non equilibrato, in cui alcuni pregi litigano con troppi elementi che lo zavorrano, specie nella sceneggiatura, inchiodandolo a un destino difficile. Non anonimo, magari, perché resiste qualche frammento da inserire tra le pagine luminose del western contemporaneo. Il racconto poggia su un tema classico del genere: il viaggio verso una meta lontana, l’avventura accidentata e gonfia di pericoli. Che in questa occasione trovano origine in una situazione assolutamente atipica: corre infatti l’anno 1892 quando il capitano Joe Blocker, prossimo al congedo, accetta di malavoglia di condurre il nemico di una vita – il vecchio e malandato capo Cheyenne, Falco Giallo – dalla prigione di Fort Berringer nel New Mexico fino al Montana, affinché possa morire nella terra in cui è nato. L’ufficiale interpretato dall’ombroso Christian Bale (che si vede confezionare da Cooper un altro ruolo di spessore, dopo quello dell’uomo tranquillo che in Out Of Furnace si trasformava in vendicatore solitario) è un soldato disilluso e solitario, che annega lo spleen nella lettura dei classici latini, conservando un paio di certezze: la fede nella divisa e l’odio per i pellerossa. La prima prevale, ed è per questo che Blocker accetta comunque un compito che lo disgusta. Luogo e tempo dell’azione ci dicono chiaramente che la frontiera è agli sgoccioli, sebbene il mito non abbia ancora permeato di epica una realtà spietata. Se c’è qualcosa di cui non difetta Hostiles è proprio il respiro epico, sia pure ottenuto quasi per caso, derivato da scelte forse nemmeno troppo consapevoli di regia.

Facile individuare ciò che non funziona, e che riposa quasi per intero nella scrittura, che il cinesata della Virginia ha condiviso con Donald Stewart.In primo luogo, non c’è praticamente nulla, nella storia, che giustifichi il cambiamento che matura nel protagonista, facendolo evolvere verso una posizione sostanzialmente opposta a quella iniziale: ricorda da vicino l’Ethan Edwards/John Wayne di Sentieri selvaggi (1956); è infatti un uomo che, pur avendo un proprio evidente codice morale, non riconosce agli indiani nemmeno la dignità di essere umani e non accetta mai il confronto con essi, mentre alla fine si ritrova a sussurrare commosso all’avversario agonizzante: “Addio, amico: con te muore una parte di me”. Frase carica di effetto ma che non sostiene il pathos del momento, esplicitando inoltre un limite tra i più evidenti del film: i dialoghi. Che, o sono insignificanti, o sono eccessivamente enfatici, neutralizzando con accessi di verbosità tutto sommato scarica un andamento per il resto non privo di solennità, che assai meglio si nutre di silenzi e tempi dilatati. Al punto che, in più occasioni, di fronte alla difficoltà nel gestire snodi narrativi complessi, l’autore non trova di meglio che affidarsi all’intensità del formidabile Bale. Ma così lascia ulteriormente ai margini gli indiani, che invece dovevano essere, almeno nelle intenzioni di partenza, i co-protagonisti e i soggetti da risarcire sul versante storico.

Se ci spostiamo sul piano degli obbiettivi (o delle ambizioni) del film, si svelano difetti anche maggiori: Cooper utilizza i nativi americani come paradigma, pensando che potrebbero essere tranquillamente scambiati con gli afro-americani o con la comunità LGBT di oggi; e costruisce Fort Berringer come fosse Abu Ghraib o Guantanamo, ritenendo intercambiabili vicende che invece hanno una specificità non sovrapponibile. In questo modo affastella dettagli e informazioni anche contraddittorie (o anacronistiche), che appesantiscono la trama e talvolta la fanno uscire dai binari, un po’ come succedeva anche in Soldato Blu (1970) di Ralph Nelson, che alludeva nemmeno troppo sottilmente al Vietnam. Cooper regista se la cava meglio di Cooper sceneggiatore. Non forse nella valorizzazione complessiva del cast (sono sottoutilizzati un interprete poliedrico come il “loachiano” Peter Mullan e l’emergente Timothée Chalamet), ma certamente nella capacità di far risaltare in certe sequenze – anche grazie a una strepitosa fotografia crepuscolare – la maestosità ieratica della natura in contrasto con la ferocia e la bassezza umana. E perfino il ritmo, innegabilmente lento, riesce a tratti a trovare la sintonia con il disagio esistenziale del protagonista e con lo spaesamento che vivono i comprimari (nativi, cacciatori, soldati, donne disperate) che interagiscono con lui. Sono schegge (solo schegge, purtroppo) di cinema maestoso e suggestivo, che non sa mantenere le promesse elargite. E così finisce per non aggiungere alcunché all’epopea del western (crepuscolare).