Si dichiara a favore di un “femminismo delle scelte, polifonico e complesso” Lucie Borleteau e lo dimostra sin dalla scelta del tema che caratterizza Solo per me, sua opera terza, ora in Italia a due anni dall’uscita francese. Il contesto è infatti quello di uno strip-club parigino, in cui si affaccia Manon, divisa fra curiosità e timore per quel luogo sotterraneo e proibito, ma capace di offrire comunque una facile possibilità di guadagno. Che è poi l’aspetto più interessante per lei, costretta com’è a vivere in un appartamento condiviso con gente poco amichevole. Se a questo aggiungiamo poi la sua tendenza a non dar conto ai sentimenti, il quadro sembra presto fatto. Ma invece l’ingresso in quel mondo di corpi esibiti, coreografie, colleghe in cerca di cameratismo, clienti che offrono denaro ma anche una parte della propria verità, porta alla descrizione di un piccolo mondo in cui la nostra protagonista si immerge e che attraversa con impulsività e gioia. In questo senso, Solo per me è un film liberato: nella naturalezza dei corpi esibiti, in un vivere la sessualità con consapevolezza merceologica che però non diviene mai degradazione, ma si fa a suo modo presa di consapevolezza del proprio potere. Lo strip-club diventa infatti un luogo che rovescia i pregiudizi e i rapporti, dove le donne conducono la danza, non sono vittime ma padrone del tempo concesso agli uomini, che devono attenersi alle loro regole, e ribaltano in questo modo la prospettiva di una realtà maschilista. Manon accetta la cosa con divertimento, complice anche la grazia interpretativa con cui Louise Chevillotte si offre al ruolo, divisa fra i registri dell’esibizionismo, del desiderio, fino, inaspettato, all’amore per la collega Mia.
L’idea della liberazione è costante, sintetizzata dai momenti in cui la protagonista vede i passanti per strada senza vestiti, anche loro immersi nella naturalezza con cui i corpi possono stare al mondo. Uno sguardo “aperto”, che diventa così genuina prosecuzione delle scene in interni, dove Manon balla, si concede ai clienti, intreccia relazioni che la portano a rompere persino il tabù della prostituzione. Una scelta, quest’ultima, fatta un po’ per curiosità, come per scoprire nuove prospettive, ma anche per motivi pratici, legati ancora una volta all’accumulo inebriante del denaro. La centralità sui corpi e sugli sguardi non è perciò mai distinta dalla consapevolezza con cui le dinamiche del potere e del capitale si intrecciano a quelle dello spettacolo. Lo si vede nell’apertura affidata a una delle spogliarelliste che si rivolge direttamente allo spettatore per spingerlo a entrare nel suo mondo. O nel desiderio costante di Mia di diventare attrice “vera”, superando il palco del club per calcare quello del cinema – un gioco di rimandi amplificato dalla scelta dell’attrice Zita Hanrot, che come il suo personaggio ha un background d’accademia. Lucie Borleteau ribadisce in più passaggi come la realtà sia retta dai meccanismi della spettacolarizzazione, che produce un gioco di teatralità, rifratto attraverso i tanti specchi che serpeggiano nel racconto. Quelli reali, ma anche quelli dati dalla moltiplicazione delle identità, attraverso maschere e pseudonimi, dove Manon diventa naturalmente Aurore.
L’autrice cerca per questo sempre uno spazio intermedio fra un approccio più realista, con tinte naturali, e i toni più caldi con luci soffuse che invece caratterizzano gli spettacoli e le scene nel club. Evita volutamente un certo barocchismo di matrice anglosassone (vengono spontanei i paragoni con i vari Showgirls e Magic Mike del caso), ma mantiene costante il divertimento giocoso della situazione. Soprattutto, a fronte di una serie di spunti che spesso restano non pienamente sviluppati, prosegue una sua peculiare ricerca della verità. Così, a fronte della levità generale, il film non recede rispetto alla problematicità insita nel legame amoroso più contrastato che, per la prima volta, spinge Manon a interrogarsi in modo più puntuale sui limiti del suo approccio così spontaneo alla vita. La flagranza del sentimento diventa in tal modo il punto di snodo che rende Solo per me un film liberato eppure imprigionato dagli imprevedibili meccanismi dell’anima, come a ricordare che il potere dei corpi ha sempre un limite nelle profondità dei sentimenti e che anche la commedia si muove nei perimetri lasciati aperti dal melò.