L’inconsistenza di Pelé, il film non il calciatore

3Questo film avrebbe dovuto uscire per i mondiali brasiliani, una sorta di viatico per una Coppa da giocare in casa. In realtà ha accumulato ritardi e (per sua fortuna) non è stato presentato in concomitanza con il terrificante 1 a 7 rimediato con la Germania nella semifinale di Belo Horizonte. Il titolo originale: Pelé: birth of a legend chiarisce qual è l’intento dei fratelli Jeff e Michael Zimbalist (si erano già occupati di calcio con The Two Escobars, documentario sui re dei narcos Pablo e su Andres, terzino della Colombia ucciso dopo Usa ’94 per un autogol che era costato la sconfitta alla Colombia nella partita con gli Stati Uniti). Qui si concentrano solo sull’ascesa di Pelé, in meno di due anni da sconosciuto a star internazionale. Sono otto anni di vita. Si comincia con un bambino poverissimo che gioca scalzo con il padre Dondinho, ex calciatore fermato da un infortunio poi inserviente in ospedale, che trasmette al figlio la gioia per il gioco, lo fa palleggiare con il mango, lo incita a provare rovesciate, a osare con la fantasia. Biopic con un’estetica da videoclip, nutrito dall’agitata fotografia di Matthew Libatique (già collaboratore di  Darren Aronofsky e Spike Lee e da poco visto al lavoro in Money Monster), Pelé cerca il movimento (spesso fine a se stesso) e lavora su inquadrature dall’alto per poi tuffarsi alla ricerca di dettagli.

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Dà l’impressione di essere stato pensato per un pubblico di under 18 abituati a giocare alla PlayStation e che della storia del calcio non conoscono nulla. E forse saranno sorpresi dalle immagini d’epoca in bianco e nero della Coppa del Mondo 1958 (il momento migliore del film, con la realtà che surclassa la fiction per pathos e forza). Nel ’58 in Svezia Pelé si rivela al mondo. Non è titolare ma dopo lo 0 a 0 con l’Inghilterra il CT Feola esclude Altafini per fargli posto. Il diciassettenne Pelé a nove mesi dal suo esordio in Nazionale diventa campione del mondo e segna pure una doppietta nella finale chiusa per 5 a 2 nei confronti della Svezia (lui finisce il torneo con 6 reti, a 17 anni!). Il suo regno in Nazionale durerà dodici anni (110 partite, 95 gol e 3 Mondiali). Indiscutibilmente Pelé è il primo campione dell’era televisiva, lo sportivo planetario amato e conosciuto ovunque. E che attraverso le immagini ha costruito il suo mito. La prima e più emblematica è quella del pianto irrefrenabile sulla spalla di un imperturbabile Didì mentre il portiere Gilmar tenta 620x349inutilmente di consolarlo. È il 29 giugno 1958, la Coppa Rimet è vinta e un genio si è rivelato al mondo. Una vicenda portentosa che il film riduce a un raccontino di formazione, inconsistente, timido, disarticolato. Fra i produttori c’è lo stesso Pelé e averlo in quel ruolo non deve avere aiutato a confezionare una biografia meno ingessata. Il manifesto estetico-ideologico del film è rappresentato dalla  divertita sequenza nel severo hotel di lusso di Stoccolma, con tutta la seleção che prima della finale esegue dribbling, tunnel e triangola tra i corridoi e la cucina. La scena è ricalcata sullo spot Nike Airport ’98 diretto da John Woo, quello con il Brasile di Ronaldo che, stufo dell’attesa in aeroporto, tira fuori il pallone e inizia a giocare fra poliziotti, doganieri, turisti  per finire sulla pista a sparare tiri al volo fra i Jumbo in decollo.