È tutto nel titolo. Matrix risorge. Due parole (nella versione originale è presente anche l’articolo ma cambia poco), soggetto e verbo, che fungono da mappa concettuale per quello che vuole essere il quarto capitolo della saga creata dalle sorelle Wachowski (ma qui co-scritto e diretto unicamente da Lana). Sono passati circa vent’anni da quando abbiamo salutato i corpi senz’anima dei due amanti Trinity e Neo. Vent’anni in cui Matrix (soggetto) non si è mai più palesato esplicitamente ma è sempre stato in qualche modo presente nell’immaginario popolare e non. Vent’anni, insomma, in cui la saga ha fatto scuola e ha modellato, indirizzato, il cinema che oggi conosciamo. Dopo due decenni in cui è successo e si è detto di tutto relativamente alle teorie dell’immagine, alla nostalgia che regna sovrana, al mercato sempre più seriale del grande intrattenimento cinematografico, Lana Wachowski torna a mettere mano ai suoi personaggi più iconici e sembra quasi voler imprimere la sua firma, sembra volersi riappropriare di un certo sguardo, una certa moda che ha caratterizzato il nuovo millennio. Matrix Resurrections, quindi, nella sua prima parte si concentra sulla parola iniziale del titolo: Matrix. Esattamente come fu per il settimo episodio della saga di Star Wars, Il risveglio della Forza, anche qui si punta a riportare in scena il film originale, non solo ricalcandone il modello (i turning points sono bene o male gli stessi, così come la struttura drammaturgica) ma rimettendo in scena quasi in scala 1:1, frame by frame, alcune sequenze, alcune battute, sino ad arrivare a usare nuovamente alcuni estratti del primo episodio. Al di là del giochino narrativo-citazionista del gatto chiamato Déjà-vu, della creazione di un nuovo videogioco o dell’ironia metacinematografica sulla Warner Bros. (tutti temi interessanti ma su cui sorvolare un attimo), resta piuttosto da domandarsi cosa abbia spinto la regista a rimettersi in gioco emulando il suo stesso lavoro (al di là di un evidente guadagno economico, ovviamente). Dato che però abbiamo detto che il titolo del film funge da biglietto da visita, allora la risposta non può che essere nella seconda parola, nel verbo: resurrections.
Se il film del 1999 era stato concepito per mettere la parola fine al secolo precedente, mentre poi si è ritrovato più che altro a essere un apripista di quello corrente, Lana Wachowski sembra essersi accorta che l’unica maniera rimasta per tornare a imporre il proprio sguardo sia quella di rivendicarlo, di farlo rinascere, appunto. La resurrezione di Matrix Resurrections non è un omaggio esplorativo e videoludico come accadde per Shining in Ready Player One, è l’unica maniera possibile per tornare in vita, tornare a ricordare chi si è stati per davvero, nella propria essenza, smettendo di vestire abiti dismessi da altri che, a partire da quell’essenza, hanno cucito per sé vestiti su misura. Resurrections si concretizza reincarnandosi nel primo capitolo. “Il Verbo si fece carne”, recita il Vangelo di Giovanni. Proprio come Matrix, un film cannibale che solamente nutrendosi del suo stesso passato può tornare in vita, ricordandosi nuovamente della parabola religiosa, dell’amore, della sua essenza fluida (qui, va da sé, sposata alla fluidità di genere non solo cinematografico, ma anche sessuale). In fondo, sono gli stessi Neo e Trinity a doversi ricordare chi sono, tornare alla consapevolezza dell’esistenza di Matrix e, quindi, a tornare in vita. Matrix è risorto con loro. Se poi ce ne sia stato davvero il bisogno, è tutto da verificare. Eppure resta innegabile che tra tutte le resurrezioni condotte dalla macchina cinematografica mainstream contemporanea, questa non è sicuramente tra le più riuscite. Senza dubbio però è tra le più interessanti.