Memorie di un assassino: il viaggio nel tempo di Bong Joon-ho

Per gli interessanti ricorsi della storia, un film come Memories of Murder, che nel 2003 ci folgorò al Torino Film Festival trascinandoci in un viaggio nel tempo (la Corea del Sud del 1986) e attraverso il tempo di un’indagine destinata a non finire mai, oggi si ripresenta in sala come Memorie di un assassino e le stimmate della novità. Il film, uscito in DVD nel 2007 per Dolmen Home Video – marchio che è anch’esso un relitto di un tempo passato, in un formato home ormai escluso dai dibattiti cinefili divisi unicamente fra sala e streaming – amplifica in questo modo lo sfasamento percettivo che la storia chiama chiaramente in causa. Oggi lo possiamo infatti scrivere con maggiore cognizione di causa: quella che sembrava una pietra tombale calata da Bong Joon-ho su una Corea del Sud che dall’economia rurale delle campagne lasciava scaturire il male profondo del primo caso di assassinio seriale (la storia è ispirata a un fatto vero), era in realtà solo la prima tappa di un viaggio che nel cinema del regista asiatico è diventata una ricognizione a tutto tondo sullo stato delle cose nel suo paese e nel mondo (si pensi all’internazionalismo di Snowpiercer). Un luogo identificato, ma universale, che diventa ricettacolo di un malessere diffuso, di un tessuto sociale slabbrato in un paese lacerato e che lotta per resistere alle sue spinte intestine.

 

 

Già da quello che era soltanto il suo secondo film (ma il primo, vero, successo), Bong lavorava per opposizioni, elaborate sia a livello di scrittura e di lavoro sugli e con gli attori, sia sul versante visivo. Nel primo caso, infatti, si nota l’alternanza dei toni che cercano di smarginare dai confini ristretti del giallo e del noir, rispettandone tutti i parametri ma allo stesso tempo sabotando la struttura nell’insieme. Sebbene meno libero nell’affastellamento dei generi rispetto a Parasite e più concentrato su una tensione crescente, Memorie di un assassino già lascia intravedere le derive grottesche propedeutiche alla trattazione di un assurdo ormai avvertito come inevitabile e unico rimedio per dipingere i paradossi del reale. L’indagine segue i canoni del police procedural, ma è destinata a vedere il mistero amplificarsi, mentre i metodi contrapposti dei detective all’opera (quello sbrigativo del poliziotto locale e quello più scientifico del collega “di fuori”) anziché circoscrivere i termini del reato, finiscono per allargarlo e a lasciar campo alla frustrazione e alla consapevolezza che esiste un cosa, forse anche un come ma sicuramente non un perché. Bong lavora su questa traccia di concerto con un cast che ha già il suo fulcro nel magnifico Song Kang-ho, sul cui volto apparentemente imperturbabile costruisce il sottile intreccio di pulsioni che la storia lascia emergere con piglio sempre più oppressivo. Sebbene apparentemente confinato nel ruolo più grottesco e provinciale, il detective Park di Song è un concentrato di tensioni che corrono sottopelle, vile e quasi capriccioso, ma allo stesso tempo istintivo e umano, perfetta cartina di tornasole per la magmatica situazione sociale sotto la lente.

 

Infine il colore: quello uggioso di una Corea metropolitana e rurale sotto un cielo plumbeo che sembra già aver introiettato il buio degli anfratti in cui sono disposti i cadaveri e che sono perciò destinati a spezzare immediatamente la solarità dell’incipit fra le spighe di grano. Una matericità spenta come quei corpi abbandonati sottoterra, come la pioggia al color di mercurio che accompagna le imprese dell’assassino e più di una sequenza. Acqua che già anticipa il fiume in cui si muove il mostro di The Host, la neve di Snowpiercer o il diluvio di Parasite. Rivedere oggi Memorie di un assassino ha dunque un valore peculiare nella conferma di un percorso d’autore già perfettamente definito nel suo immaginario tematico e figurativo, nella capacità di plasmare lo spazio in senso espressivo e nel lacerare progressivamente l’animo dello spettatore mettendolo di fronte a una forza disarmante che è critica verso il reale, ma che allo stesso tempo sa riverberare come poche la forza mitopoietica ed emozionale del cinema. Un capolavoro, ieri come oggi, non isolato in una carriera registica fra le più straordinarie degli ultimi decenni.