È un film converso, Molecole (ieri in Preapertura a Venezia 77 e da domani in sala), nel senso che “sgorga” come dice il regista, Andrea Segre, in senso inverso, forse anche avverso, rispetto alle ragioni per cui a inizio anno si trovava nella sua Venezia. Questo film è il frutto di una conversione, forse forzata, di sicuro necessaria, probabilmente anche un po’ voluta per quelle ragioni profonde che poi sono diventate le ragioni più forti del film: questioni di famiglia, un dialogo a distanza mai davvero trovato tra un figlio regista e un padre chimico, uno a scandagliare la realtà con lo sguardo e con le immagini, l’altro a guardarla al microscopio. Storie di uomini e culture per uno, questioni di molecole e elettroni per l’altro. Fatto sta che questo è un film in cui un veneziano renitente (per sua stessa ammissione) come Andrea Segre si trova a raccontare una città sospesa sul vuoto surreale dei giorni del lockdown, mentre era a Venezia per lavorare a un duplice progetto su turismo e acqua alta, due fattori criticamente identitari per una città che soffre di affollamento, inondazioni, invasioni di corpi ed elementi…
Molecole nasce insomma da un singolare contrappasso, che da un lato si traduce nella testarda volontà di filmare, continuando ad ascoltare quei testimoni che il regista stava già ascoltando: un anziano pescatore, una giovane vogatrice, una coppia che vive in Laguna, un ex guardiano dell’acqua alta… Tutte figure che rendono presente in maniera concreta, fisica, la tensione identitaria malferma, instabile, perennemente provvisoria, per quanto profondamente radicata, della gente di Venezia. Dall’altro lato, però, il contrappasso imposto dal maledetto virus spinge Andrea Segre nell’inattesa necessità di riflettere su se stesso, di interrogare il suo essere veneziano interrogando il suo rapporto con quel padre, Ulderico, col quale le domande e le risposte non sono mai state in sincrono. Dall’assenza della città scaturisce l’assenza del padre e quindi l’introflessione nei ricordi e nei frammenti di vita lasciati dal genitore al figlio. È così che sgorga la parte più intensa del film, quella che si affida alla soggettività di una voce narrante (quella del regista) insicura, un po’ tremante, imperfetta ma autentica nel suo ritrovare un dialogo interrotto con le memorie di un rapporto col padre che è stato bello, ma non quanto avrebbe potuto e voluto essere.
Molecole diventa allora un documentario sui rimpianti, in cui il non detto dei veneziani rispetto all’amore per una città difficile riecheggia nel non detto del rapporto tra un padre e un figlio. E alla nettezza un po’ distante delle interviste si oppone il riemergere delle foto e dei Super8 di Ulderico, il testo di una lettera di Andrea al padre, gli oggetti e gli interni della casa di famiglia. E infine il baluginare di incerte immagini della Venezia astratta nei giorni della quarantena, filmate da Segre con discrezione, quasi all’impronta, come se d’improvviso il professionista della macchina da presa si ritrovasse dilettante dinnanzi al silenzio e al vuoto dello spazio. Impreparato a filmarlo, tanto quanto s’era scoperto stupito dalla perizia fotografica rinvenuta nelle riprese e nelle foto del padre. Ecco, Molecole, sta tutto in questo dialogo imperfetto, introflesso, convesso e, appunto, converso con una realtà inattesa. Sta nella sua natura minimale, volutamente incerta, decisamente sorpresa. E lascia dentro piccoli strascichi di dolore riflesso, nella cui scia un po’ tutti ci siamo ritrovati nel tempo forzatamente intimo della quarantena.
Il film sarà in sala dal 3 settembre
Disponibile in streaming sino alle ore 21,00 del 3 settembre