Lo spunto sembra provenire direttamente da uno di quei detour narrativi su cui si basavano i precedenti e più noti thriller di Christopher Landon (Auguri per la tua morte e Freaky): mentre erano al ristorante per una cena, i produttori Brad e Cameron Fuller sono stati infatti perseguitati da una serie di misteriosi AirDrop, i file che arrivano sui telefonini da destinatari non necessariamente aderenti alla propria lista dei contatti. Dopo aver invano cercato il mittente, i due hanno capito di avere per le mani lo spunto per una buona storia e hanno commissionato un trattamento agli sceneggiatori Jillian Jacobs e Chris Roach, quelli di Obbligo o verità?, che ha entusiasmato Landon. A questo si può aggiungere che nel frattempo il regista losangelino sembrava sul punto di completare la sua personale ridefinizione dei codici dello slasher movie portata avanti dai film già citati, dirigendo il settimo capitolo della saga di Scream – e non a caso dei suoi film avevamo ribadito proprio la peculiare natura craveniana. Un progetto poi sfumato per problemi produttivi nati nel dietro le quinte.
In questo coacervo di influenze, Drop si offre con l’apparenza dell’outsider che vuole segnare un’apparente discontinuità per Landon, che alla natura proteiforme dei precedenti lavori, frutto di un più palpabile entusiasmo per la commistione dei generi e gli slittamenti di narrazioni e stili, oppone una più solida struttura di stampo hitchcockiano. Lo si nota nell’utilizzo di un’unica location (un ristorante panoramico su Chicago, ricreato in studio) e in un implacabile meccanismo narrativo che ruota attorno alla protagonista Violet, perseguitata dai vari AirDrop che le impongono di assassinare l’uomo con cui ha un appuntamento quella sera. In caso contrario, il misterioso mittente eliminerà suo figlio, rimasto a casa insieme alla zia. È interessante notare come Violet arrivi a trovarsi in questa situazione dopo essere uscita da una relazione tossica con l’ex marito che l’ha spinta a intraprendere una carriera di terapista per donne in difficoltà: dunque un personaggio che alla violenza ha opposto lucidità e impegno per mantenere un controllo sulla realtà, ma che ora è costretta suo malgrado a doverlo perdere (“Non comandi tu” le scrive il misterioso mittente al telefono), pur dovendo fingere con l’uomo al tavolo che invece va tutto bene. Il gioco al rimpiattino fra la possibilità di dominare il presente, opposta alla fragilità evidenziata dal ricatto del drop, si estrinseca così in un doppio registro che il film porta avanti a livello strutturale e stilistico. Landon, in sostanza, lavora per trovare i varchi utili a scardinare un meccanismo narrativo di stampo classico e “cartesiano” nella trattazione del gioco a scacchi fra Violet e il suo ricattatore, utili ad aprire quegli slanci vitalistici e di umanità che gli sono sempre interessati. La formula del whodunit diventa così il corrispettivo della coazione a ripetere tipica dello slasher e l’ennesimo formato che l’autore cerca di reinventare e fare proprio per lasciare emergere la verità del suo personaggio. Più che la scoperta dell’assassino (in realtà abbastanza prevedibile), ciò che Drop maneggia con più accortezza è infatti il viaggio interiore di una protagonista che, messa di fronte all’impossibilità di razionalizzare il presente (e con esso la traumatica esperienza passata), deve fare i conti con le proprie fragilità umane per lasciar emergere un’emotività che è l’autentica posta in gioco del film, al pari di quanto accadeva alla Tree di Auguri per la tua morte o alla Millie di Freaky, portate a forza fuori dal proprio contesto perché si confrontassero con le loro debolezze.
Non a caso è su di lei che il mittente dei drop fa ricadere la sua scelta, perché sospettata di aver ucciso quel marito violento con cui viveva, prima di ricostruirsi una rispettabilità sociale. Ancora il confronto fra apparenza e sostanza tipico del cinema di Landon, messo in atto in una struttura che del resto non manca nemmeno qui della classica ironia dei suoi film (come testimonia il rocambolesco cambio di registro dell’atto finale). In questo il regista trova un’efficacissima sponda nell’eccellente interpretazione di Meghann Fahy, capace di reggere una struttura visiva costruita principalmente sul primo piano e sulle microsfumature espressive del volto, che si uniscono a un’innata capacità di risultare sempre autentica e coinvolgente. La messinscena di un thriller diventa così occasione per ripensare la posa in essere di un mondo in cui il dramma interiore influenza lo spazio attorno alla protagonista, abbattendo le barriere fra i perimetri del reale – gli ambienti labirintici del ristorante-cervello – e il campo virtuale dei drop.
I testi dei messaggi ricevuti da Violet assumono in tal modo una funzione non soltanto narrativa, ma anche squisitamente espressiva nel modo in cui occupano, enormi, lo spazio attorno a lei e “diventano” tutto il suo mondo assumendo la caratura metaforica del “peso” della situazione in essere. Se già da un po’ di tempo siamo abituati all’invasività degli elementi virtuali “a vista” nello spazio in cui agiscono i protagonisti reali, Landon porta questa dinamica di interazione a un livello che non esaurisce la funzionalità nella mera espressione di un contenuto o, al più, nella piacevolezza grafica pari a come ognuno di noi ama “customizzare” i propri device. Al contrario, ne fa un elemento brutale e incisivo, il cui “peso” visivo specifico indica icasticamente l’intrusione dell’elemento tecnologico nella nostra realtà. In questo senso, Drop si configura soprattutto come una grande partita fra l’umano e il virtuale, in cerca della verità della vita.