Narrazioni labirintiche in Madame Claude di Sylvie Verheyde su Netflix

Di biopic ne abbiamo visti e continuiamo a vederne, così pure di gangster movie. Poiché Madame Claude di Sylvie Verheyde è un po’ tutte e due è necessario domandarsi quali siano le caratteristiche per un film diretto da una donna, che racconta l’ascesa e la caduta di Fernand Grudet, detta Madame Claude, personaggio realmente esistito, che ha lucrato nel giro del malaffare della prostituzione con inevitabili rapporti con la malavita parigina dell’epoca tra il 1968 e i primi del ’70. Con il suo esordio con Stella, Verheyde aveva piacevolmente impressionato il pubblico della Mostra del cinema di Venezia del 2008. Ritornando a quel passato recente, più o meno in quegli stessi anni in cui aveva già ambientato quel suo primo film, la regista francese, con questo suo terzo lavoro – il secondo, Confessioni di un figlio del secolo  ricevette recensioni negative al suo passaggio al Festival di Cannes 2012 – sembra volere amplificare gli esiti di quella produzione, provando nel contempo a: ricostruire la biografia, con ogni necessaria caratterizzazione mascolina di una donna che decide di lavorare al di fuori dei margini della legge, raccontare le vicende di questo suo personaggio che ha avuto anche un peso negli intrecci politico-affaristici della Francia a cavallo tra gli anni ’70 e ’80; raccontare la natura di una femminilità comunque oppressa dentro un mondo prettamente maschile, restituendo il senso di oppressione in un mondo dominato dalle logiche di sottomissione al potere, impronta prettamente maschile, che al di là di chi la adotta supera il genere e supera la relazione tra i sessi. Madame Claude, visibile su Netflix, è un poco tutto questo e, se si vuole, molto altro è ancora possibile ritrovare tra le pieghe di un lungo e serrato racconto.

 

 

È forse a causa di questa voglia eccessiva di racconto, di una sovrabbondanza di temi, che, con una certa pratica narrativa fatta di ellissi e sussunzioni, vengono più o meno agevolmente sbrigati, che il film di Sylvie Verheyde non riesca a centrare perfettamente il suo obiettivo, rimanendo un po’ in mezzo ad un guado, che vede da una parte una ricostruzione più che dei tempi di quello che è la parvenza dei tempi e dall’altra una sovrabbondanza di materiali che la regista sa dominare, ma non rendere indimenticabili incidendo con efficacia nell’immaginario dello spettatore. La storia è quella della vera Fernande Grudet, interpretata da una convincente Karole Rocher, “maitresse della Repubblica”, come la chiamavano, donna venuta da una povertà provinciale, senza amici, ma con trecento ragazze alle sue dipendenze. La prostituzione e il vizio regolano anche gli affari del mondo e della politica e il salto di qualità fu quello di essere al soldo dei servizi segreti per sbrigare o contribuire a sbrigare qualche faccenda scottante. Ma come accade sempre, l’ingranaggio si inceppò e Madame Claude ci finì dentro abbandonata dai suoi protettori per avere evaso il fisco, come Al Capone. Costretta a scontare la galera, l’esilio e di nuovo la galera per potere tornare a vivere da donna libera, per morire a Nizza nel 2015.  Non è da trascurare nel racconto di Sylvie Verheyde la figura di Sidonie, ragazza di punta tra quelle di Madame Claude, che diverrà sua amica e confidente, ma con la quale non mancheranno le discordie e le sottaciute gelosie. Sidonie, personaggio centrale che a volte ruba la scena alla protagonista, interpretata da una enigmatica Garance Marillier, sa giocare con le sfumature del suo personaggio e con i chiaroscuri di un carattere in equilibrio tra una disarmata ragazza di buona famiglia e una insinuante e sensuale donna che sa aspirare ad un ruolo di dark lady. E qui si innesta quindi un’altra storia, con sufficiente materiale per un altro film con tanto di risvolto pedofilo nelle morbose violenze perpetrate dal padre alla figlia ancora ragazzina. Sarà proprio questo personaggio fatto di viscida consistenza a disintegrare con un lavoro oscuro e sotterraneo, il piccolo impero e la piccola felicità di Madame Claude.

 

 

È dentro questo accumulo di fatti, tutti in verità ben organizzati, per cui il film fila liscio e anche con un suo incalzare appassionante, che si sviluppa la vicenda di Fernande Grudet, con il suo spirito imprenditoriale, il suo senso per gli affari, la sua selezione delle ragazze, il suo piglio e la sua determinazione, i suoi ondivaghi sentimenti sull’amore, il suo senso di sprezzante orgoglio nei confronti di chi gli era avversario, vendicativa e fredda fino al cinismo, con quell’infanzia fatta di povertà e un presente di ricchezza e agiatezza conquistato con un malaffare tollerato. Madame Claude è frutto di una giusta ambizione, che in parte sa anche diventare realtà, ma la conquista di qualcosa rischia sempre di fare perdere qualcos’altro. Madame Claude restituisce a pieno il profilo di una delle tante donne capaci di dare consistenza alla propria voglia di potere e di autorità, ma è anche vero che la sua immagine non resta così netta e definita, ripiegando a volte con uno sguardo più focalizzato proprio sulla secondaria Sidonie. Il film diventa quindi, pur in questa sua quasi labirintica narrazione, una inusuale indagine su un particolare aspetto del mondo femminile e si ha l’impressione che la regista sappia molto bene di cosa parla o quando descrive e dirige i suoi personaggi, ma è anche vero che vi sia una ricerca, una aspirazione verso una desiderata perfezione – della messa in scena ad esempio – piuttosto che ad entrare con pieno impeto nel corpo del suo personaggio, mostrando quel segno che lascia traccia. È forse questo il punto più debole del film, questa sua incapacità di empatizzare con Madame Claude, così come invece la stessa Verheyde aveva empatizzato con Stella, che per altri versi diventa godibile con la sua serrata narrazione. Sylvie Verheyde ha affermato di avere voluto decostruire un mito, ma la decostruzione viene dopo la costruzione e questo purtroppo manca al film, troppo distratto da incroci narrativi, che, pur nella loro corretta conduzione, vanno a detrimento di un focus che a volte manca e va cercato in quella abbondanza di narrazione dentro la quale Madame Claude sembra perdersi.