Per un giallo ribaltato: Occhiali neri, di Dario Argento

In una pellicola argentiana classica, probabilmente la Diana di Ilenia Pastorelli avrebbe ricoperto un ruolo laterale: non da protagonista, ma affine a quei personaggi che, dai margini della società, descrivono un microcosmo di varia umanità, problematica, di sconfitti capaci però di tastare il polso dell’universo malato contro cui gli eroi argentiani strenuamente combattono. Come accade con l’alcolista Carlo che fornisce la chiave interpretativa al Marc Daly di Profondo Rosso, o con il pianista cieco di Suspiria, sbranato dal suo cane dopo aver minacciato di rivelare la verità sulla scuola delle streghe (e il riferimento, in questo caso, funziona a più livelli). Alla stessa maniera Diana è infatti un personaggio reietto, guardato in cagnesco persino dalla governante che non approva la sua scelta di lavorare come escort, e nel prosieguo della storia si vedrà sempre più relegata nel ruolo dell’outsider, perdendo le poche sicurezze che ancora le restano, diventando prima cieca, poi vittima e infine ricercata dalla polizia, con l’unica compagnia di un altra anima sola come quella del piccolo Chin. Se l’idea della solidarietà tra gli ultimi può essere ascritta alla penna di Franco Ferrini (ricordiamo la sua unica regia di Caramelle da uno sconosciuto, ambientato proprio nell’ambiente delle prostitute), ugualmente il ribaltamento prospettico che vede una tipica comprimaria argentiana ascendere al ruolo di protagonista, è propedeutico a una rilettura profonda dell’immaginario proprio del regista romano che Occhiali neri consapevolmente opera.

 

 

Argento, infatti, asciuga la storia di ogni possibile derivazione, concentrandosi su un inedito realismo della performance utile a rendere la vicenda un perfetto controcampo dei suoi gialli classici. Da sempre fondato sull’atto del vedere come motore di ogni possibile mitopoiesi – si pensi alle soggettive, alle inquadrature sugli occhi, al barocchismo delle morti – il thrilling stavolta è occluso, non vedente, ridotto alle azioni meccaniche nel muoversi in spazi comunque troppo stretti, all’interno di una realtà disadorna e priva di qualsiasi orpello o feticcio. Niente più nenie infantili, impermeabili neri, sussurri al telefono o estenuanti performance dell’omicidio: le morti di Occhiali neri sono sì sanguinose ma rapide, all’interno di un plot esile fino all’essenzialità, privato persino del classico whodunit da soluzione finale (anticipata a quasi metà della narrazione). Completamente riassunto nel brillante incipit con l’eclissi solare – tanto da stimolare l’idea che tutto il resto della narrazione altro non sia che un sogno di Diana, magari una visione ribaltata di quella serenità con cui la donna si ferma ad osservare il fenomeno – il film procede così a tentoni con la stessa fragilità della sua protagonista, quasi un corrispettivo del Clint Eastwood di Cry Macho, tracciando una linea terminale su un giallo in cui il centro e la periferia sono tutt’uno con un mondo ormai diventato molto piccolo.

 

 

Affidato a un’eroina che non risolve il mistero ma lo subisce con l’unica speranza di salvezza garantita dalla fuga, Occhiali neri è quindi un divertito esercizio di un autore che ormai vede il mondo con disincanto, ma anche con la scelta del tutto politica di focalizzarsi sui tasselli meno illuminati dai riflettori della cronaca: una prostituta, un orfano, un cane per ciechi, in strade periferiche di una Roma irriconoscibile, “eclissata” come tutto il resto. Trova in questo l’ausilio della figlia Asia (in un ruolo che sembra scritto per Daria Nicolodi) e, soprattutto, di una Ilenia Pastorelli che si offre al ruolo con dedizione, con una magnifica cadenza romanesca che ribalta tanto l’italiano sempre troppo scandito del cinema italiano contemporaneo, quanto i doppiaggi poco convinti dei film argentiani del passato (Occhiali neri è il primo che l’autore gira in presa diretta non inglese). A loro si unisce una crew mista, in parte formata dai sodali di sempre (Sergio Stivaletti agli fx, il già citato Ferrini allo script), in parte “ribaltata” nelle musiche (un po’ troppo presenti) di Arnaud Rebotini e nella fotografia ben centrata di Matteo Cocco (già notevole in Pericle il nero e Sulla mia pelle) che sostituisce egregiamente i più noti Luciano Tovoli o Frederic Fasano.