“Mi hanno detto che per capire devi viaggiare all’indietro nel tempo, quindi sono salita su un aereo verso terre straniere”.
Tra il 2011 e il 2014 PJ Harvey segue nei suoi viaggi in Kosovo, Afghanistan e negli USA (Washington, D.C.) l’amico fotoreporter e filmmaker irlandese Seamus Murphy (A Darkness Visible), già autore dei video per i pezzi del suo precedente Let England Shake (2011). Dagli appunti e dagli incontri raccolti dalla cantautrice sul percorso – in aggiunta alle riprese fatte, sempre da Murphy, in Siria e Macedonia – nascono le undici canzoni dell’album The Hope Six Demolition Project (2016). Sono contesti di guerra o post bellici, di povertà, emarginazione, in cui momenti di socializzazione con i locali ispirano e influenzano testi e sonorità dei brani: da osservatrice aliena eppure “embedded”, PJ Harvey entra in contatto con la tradizione musicale del luogo e si lascia attraversare da suoni, parole, gesti di ospitalità. Che si tratti di un cinema “in cui vent’anni fa il biglietto si pagava in pallottole”, di un pianoforte abbandonato, di strumenti sconosciuti, di un rap improvvisato per strada da una ragazza afroamericana (il titolo dell’album si rifà a Hope VI, programma statunitense di riqualificazione dell’edilizia popolare), di una sessione privata di percussioni a Kabul o di una festa da ballo campestre nei Balcani, tutto confluisce nel processo di rielaborazione dell’incontro con l’altro da sé.
In parallelo, l’artista e la sua band – formazione di gran pregio, tra cui anche i “nostri” Enrico Gabrielli e Alessandro Stefana — si chiudono in uno studio costruito ad hoc nella Somerset House a Londra, per registrare l’album prodotto dal poliedrico e generoso John Parish con Mark Ellis. Un piccolo pubblico, non visto, osserva dagli ampi vetri esterni i polistrumentisti, come fossero pesci in un acquario, o i protagonisti di un’installazione d’arte, senza disturbarne il processo creativo. È un’occasione rara per osservare nel suo svolgersi un tipo di lavoro per lo più inaccessibile: la ricerca di suoni, per tentativi, takes, confronti, improvvisazioni. Tra le location di viaggio e le fasi di registrazione a Londra il documentario si srotola procedendo per accostamenti di disuguaglianze lontane fra loro ma simili, di suggestioni volutamente libere da una stringente scaletta narrativa. Murphy e PJ Harvey sposano un approccio frammentario e fortemente sensoriale, il montaggio lascia allo spettatore il compito di trovare le connessioni o di ravvisare storture o voyeurismi da osservatori privilegiati (“sto camminando sopra le loro cose con i miei sandali costosi” commenta lei mentre si muove all’interno di un’abitazione privata, sbriciolata dalla guerra in Kosovo). Oppure, di riconoscere le tracce di una spiritualità universale, cercata in un abbraccio ideale e in un album di osservazione e di critica a razzismo e militarismo, che tiene insieme tenerezza e furiose dissonanze: una ricerca utopica che non si dà per vinta, in rispettosa osservazione della scia di una spirale innescata dal denaro.
Selezionato alla Berlinale 2019 in Panorama, al Festival dei Popoli e al Milano Film Festival, PJ Harvey – A Dog Called Money è visibile in anteprima da giovedì 21 maggio alle ore 19 sulla piattaforma digitale Wanted Zone, “sala virtuale dedicata al cinema ricercato”, in collaborazione con MyMovies. Con il primo titolo della Wanted distribuzione che inaugura una serie di film di catalogo disponibili dal 28 maggio, Wanted Zone punta al coinvolgimento attivo delle sale: il biglietto per ogni singola visione, a orari precisi (6,99 euro per le prime visioni, 3,99 per i titoli già in catalogo) si può infatti acquistare sul sito della propria sala cinematografica di riferimento. Alle 21 è prevista la proiezione di Alla mia piccola Sama, presentato dalla co-regista Waad Al-Kateab e patrocinato anch’esso, come A Dog Called Money, da Amnesty International.
http://wantedcinema.eu/movies/pj-harvey-a-dog-called-money/
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