Nell’epoca degli eterni ritorni, era abbastanza prevedibile che la saga di Final Destination non potesse restare a lungo in letargo, pur considerando come il finale del quinto e precedente capitolo, realizzato nel 2011, chiudesse bene il cerchio iniziato dal film originale, con una chiosa che tornava in modo preciso al primissimo incidente. Come riaprire il gioco delle morti “balistiche”, ponendo nel frattempo le basi per futuri e ulteriori sequel, deve essere stata dunque la maggiore preoccupazione di Zach Lipovsky e Adam Stein che si dichiarano fan della saga quasi in modo identitario, essendo entrambi di quella Vancouver dove sono stati girati i vari film. E in effetti la trovata è intelligente: si parte come sempre da una visione, ambientata negli anni Sessanta. Un incidente che coinvolge varie persone che, grazie alla premonizione, si salvano, indispettendo la morte che poi dovrà tornare a prenderle una alla volta nell’ordine esatto in cui era previsto dovessero perire. Ma, e qui sta la trovata, a “vedere” cosa succede non è una delle vittime predestinate (o meglio non solo), ma una sua discendente, da cui il Bloodlines del titolo. Già perché il massacro della visione era stato sventato davvero negli anni Sessanta, permettendo ai vari sopravvissuti di generare varie famiglie nel corso dei decenni, che la morte ha dovuto così “inseguire” nel tempo, generando sempre nuovi incidenti fino al presente.
Ne deriva che tutti gli accadimenti tragici da cui partivano i precedenti film altro non sono che germinazioni di questo evento primario, provocato peraltro da un oggetto che diventa così la chiave per rendere possibili ulteriori prosecuzioni. In tal modo, Final Destination Bloodlines si pone al contempo come prequel, re-inizio e sequel dei cinque capitoli originali, lavorando su una continuità che se non interessa direttamente la nuova storia (alla fin fine visibile in maniera del tutto autonoma, con personaggi inediti), è comunque collegata a un disegno più ampio, in grado di solleticare l’appetito del pubblico odierno per i grandi film-mosaico, i cosiddetti “universi” condivisi. La dialettica con lo spettatore ha peraltro un ruolo molto importante nell’operazione perché Lipovsky e Stein, mentre ossequiano con diligenza il meccanismo ormai noto, per il resto si divertono a dribblare ogni aspettativa. Alla consueta e inventiva messinscena di morti spettacolari e frutto di banali dettagli che, nel loro accumulo, producono però un effetto a valanga, i due registi uniscono infatti un brioso gusto per la sorpresa: a volte si suggerisce una direzione narrativa che però poi viene smentita, personaggi che sembrano morire in realtà si salvano, altri muoiono in modo inaspettato, mentre il tono oscilla fra il dramma autentico e il cartoon splatter, in una buona fusione di suspense e ironia.
Su tutto, prevale l’idea forte che ha contrassegnato fin dalle origini la saga, ovvero quella di un assassino disincarnato e onnisciente che affastella delitti come in un meccanismo slasher, ma che non è ricollegabile a pulsioni legate alla sessualità o alla morale. Muoio dunque sono, si potrebbe dire dei vari protagonisti che si sono affaccendati, puniti da un espediente narrativo che esplicita la natura omicida della stessa macchina-cinema come dispositivo in grado di mettere in scena la morte quale grande artificio spettacolare (idea presente in nuce fin dalle origini, basti pensare alle soggettive senza soggetto di Mario Bava). In pratica il filone ricondotto alla sua mera natura fenomenologica. La capacità del film di tenere insieme varie istanze è visibile anche nella scena destinata a restare maggiormente impressa nella mente degli appassionati: l’ultima apparizione di Tony Todd, che finalmente svela il ruolo del suo personaggio nel grande mosaico della saga, offrendo però il suo autentico corpo malato e concedendosi così l’ultimo saluto al suo pubblico. Uno scampolo di realtà autentica nel grande gioco cinefilo, che testimonia l’attento equilibrio di un saga che anche nell’approccio ironico generale, trova comunque modi e momenti per fare sul serio.