Sicilian Ghost Story (film d’apertura a La Semaine de la Critique) nasce con i migliori auspici: un premio importante al Sundance per la sceneggiatura, che seguiva di quattro anni l’accoglienza trionfale ricevuta per il film precedente di Fabio Grassadonia e Antonio Piazza, Salvo, vincitore della Semaine de la Critique a Cannes. Senza parlare del soggetto liberamente ispirato al racconto Un cavaliere bianco di Marco Mancassola (Einaudi) e contenuto nel volume Non saremo confusi per sempre. La storia s’ispira al terribile fatto che coinvolse il giovanissimo Giuseppe Di Matteo, figlio di pentito, che fu rapito dalla fazione mafiosa dei corleonesi di Giovanni Brusca, nel tentativo di indurre il padre a ritrattare. Un rapimento durato due anni, finito con l’uccisione del ragazzo che fu sciolto nell’acido. Pagina assurda nella storia della mafia, raccapricciante per crudeltà ed efferatezza, che diventa quasi horror nel film dei due registi siciliani, anzi, fantasy dai toni cupi e dalle immagini claustrofobiche, capaci di seguire i personaggi avvicinandosi con ossessione ai volti, ai dettagli minimi di ogni espressione. La favola è data dall’ambientazione: una cittadina a ridosso di un bosco, con animali (i più tipici dei racconti di genere), laghi, colline e strade che conducono in posti sconosciuti. In questa Sicilia inedita al cinema, si muovono personaggi che, invece, abbiamo imparato a riconoscere proprio nei film. Sopno adulti imbruttiti dalla vita e dalla violenza oppure semplicemente impauriti da ciò che non si può neppure nominare. In questo contesto solo i giovani e giovanissimi personaggi, Luna, l’amica Loredana, lo sfortunato Giuseppe, sembrano farsi portatori ostinati di un’innocenza diversa e per questo incompresa.
A soffermarsi solo su queste linee programmatiche, però, Sicilian Gost Story può apparire un film ricco e pieno di fermenti. In realtà, nella loro ambizione di uscire dagli stereotipi del solitio film di mafia, Grassadonia e Piazza hanno perso di vista il vero progetto e lo hanno caricato di segni ridondanti e soffocanti. Il virtuosismo dei due registi, che tende al puro esercizio di stile, porta il film su strade sbagliate. Non è necessario eccedere nel lirismo per non cadere nei tranelli del cinema già tante volte visto, e non serve ubriacare la semplice linea narrativa con dettagli continui e ripetitivi, per comunicare allo spettatore un senso di poetico spaesamento. Anzi, il risultato che ottengono Grassadonia e Piazza è di confondere lo sguardo attraverso continue giravolte della macchina da presa, troppo eccentriche per parlare di poesia. Certo, c’è la denuncia dell’omertà e delle scelte tutt’altro che coraggiose, di far finta di non vedere e non sapere, pur di non farsi coinvolgere, ma a poco serve se tutto resta invischiato in un discorso fangoso ed esasperante. Vogliamo dire che non serve capovolgere il punto di vista per cambiare davvero il modo di vedere. E a nulla giova la ribellione di una natura anche sensoriale, se poi le immagini non sanno fare tesoro della leggerezza che, invece, avrebbe dovuto far parte del linguaggio di un film con simili ambizioni rivoluzionarie.